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 2024  aprile 01 Lunedì calendario

Intervista a Fabrizio Cicchitto

Fabrizio Cicchitto, gira ancora con la pistola in tasca?
“No, non più. Ne avevo tre. Sparavo al poligono”.
È un dettaglio che ci dice cosa è stata anche la politica italiana.

“Eh!”.
Lei nasce come un ragazzo di sinistra.
“Sì, ma anticomunista e anticlericale. Oscillavo tra Croce e Marx”.
E dopo una vita con Berlusconi nessuno ricorda che ha cominciato nella Cgil.
“Mi sono iscritto al Partito socialista nella sezione di via Monte Zebio a Prati a diciott’anni, nel 1959. Il leader della corrente socialista della Cgil Ferdinando Santi, a cui piacevano le cose che dicevo, mi propose di entrare nell’ufficio studi”.
Faccio fatico a immaginarla come sindacalista.
“Invece ho fatto molto lavoro sul campo. Nelle fabbriche tessili, da Biella a Prato, come delegato Filtea. Ed ero a Valdagno quando gli operai della Marzotto abbatterono la statua del proprietario della fabbrica”.
Cosa c’entra lei con la Cgil?
“Non era questa di adesso. È stata una grande scuola, collaborai con Lama, Trentin, Garavini, Foa, Boni, Brodolini. Il meglio della cultura politica di sinistra”.
In che famiglia è cresciuto?
“Mio padre era medico. Andò in Africa Orientale, e quando mia madre, nel 1940, rimase incinta di me la fece tornare in Italia per partorire. Papà finì poi prigioniero degli inglesi, lo rivedemmo quando avevo già sei anni”.
Erano fascisti?
“No, monarchici antifascisti. Nel soffitto della nostra palazzina di via Gianturco a Roma si nascondeva un ebreo, di cui sentivo i passi. Un giorno mi infilai nel suo nascondiglio. Mi guardò atterrito e col dito m’indico di fare silenzio”.
Si salvò?
“No, un giorno i nazisti lo scoprirono e lo arrestarono. Non ho dimenticato la disperazione di mia madre. Da allora io sono un ultra filo israeliano e ultra filo ebreo”.
E i nazisti non vi fecero niente?
“Un avvocato del palazzo era amico di Guido Buffarini Guidi, il ministro degli Interni fascista. Convinse i tedeschi a lasciarci in pace”.
Eravate ricchi?
“Mio nonno materno, Enrico, fondò il caffè Rosati di piazza del Popolo. Mi portava spesso con sé”.
Che ricordi ha?
“C’era un gran silenzio. Secondo Radio Londra era un covo di spie e infatti nessuno fiatava”.
Che cosa ricorda dell’occupazione tedesca?
“Un giorno un ufficiale della Wehrmacht chiese a mio nonno di farmi una carezza perché assomigliavo a suo figlio: temeva di non rivederlo più”.
E perché lei diventa di sinistra?
“Dopo la guerra i miei cominciarono a votare per la Dc, e invece a me i democristiani mi stavano sulle balle”.
Quindi va a sinistra per reazione?
“In un certo senso sì. La mia idea di socialismo coniugava riformismo, welfare e solidarietà con gli operai”.
Quando conosce Craxi?
“All’università. Parlava lentamente, con lunghe pause. Divenni amico di De Michelis e Signorile”.
Lei è stato in prima fila al referendum del divorzio.
“I comunisti erano sicuri di perderlo. Io invece no. Convinsi Nenni, Parri, Saragat, La Malfa e Malagodi a salire sullo stesso palco per il comizio finale in piazza del Popolo. Erano divisi da molti rancori, si detestavano, li andai a cercare ad uno ad uno”.
Come vi riuscì?
“Saragat mi disse: ‘Vengo solo perché mi fai tenerezza’. Per il divorzio diedi il meglio di me stesso”.
Lei inizialmente non stava con Craxi.
“No, ero schierato con Riccardo Lombardi”.
L’ala sinistra del Psi.
“Sì, ma al famoso congresso del Midas del 1976 Lombardi volle puntare su Antonio Giolitti segretario per il dopo Di Martino. Con Signorile gli spiegammo che con Giolitti avremmo fatto tanti bei convegni sul capitalismo mentre al partito serviva un duro come Craxi che contrastasse l’egemonia di Dc e Pci”.
Che flash le è rimasto del sequestro Moro?
“Una mattina mi mandò a chiamare Serenella, la segretaria di Craxi: ‘Bettino ti deve parlare’. Entrai nella sua stanza e mi consegnò la lettera che Moro gli aveva appena mandato dalla prigione del popolo”.
Chiedeva di trattare.
“Ci guardammo entrambi sconvolti. Poi Craxi mi abbracciò commosso: ‘Dobbiamo salvarlo, noi non siamo comunisti"’.
Quando è entrato in Parlamento?
“Nel 1976, a 36 anni”.
Come mai un giovane deputato in ascesa si iscrive alla P2?
“È stata la cavolata più grande della mia vita”.
Perché l’ha fatto?
“Eh, adesso qui è difficile spiegare il difficile contesto politico e umano in cui mi trovavo in quel momento”.
Proviamoci.
“Avevo da poco litigato con Craxi, ed ero sprofondato in una grave depressione. Cominciai a soffrire di manie di persecuzione”.
Cosa la mosse? L’ambizione?
“Ma no. Mi feci lusingare dal fatto che loro controllavano il Corriere della Sera, offrivano buona stampa, protezione”.
Ne aveva bisogno?
“No, no, è che presi tutto sottogamba. Pensai: è soltanto una loggia massonica. Mi convinsero dicendo che vi erano iscritti anche il generale Dalla Chiesa e Maurizio Costanzo…”.
Lei alla Commissione Anselmi confessò che era minacciato.
“Ecco sì. Avevo ricevuto molte lettere anonime. Di minacce. Mi pedinavano. Sapevano chi vedevo, dove andavo, le donne che incontravo”.
E così bussò alla P2?
“Conoscevo Fabrizio Trecca, un medico amico di Costanzo, un tipo molto simpatico”.
La reclutò lui?
“Sì, mi disse che avrebbero risolto la cosa delle minacce”.
La mise in contatto con Gelli?
“Sì, ci vedemmo un paio di volte all’Hotel Excelsior in via Veneto, dove Gelli riceveva i suoi affiliati”.
Che impressione le fece?
“Di un tipo opaco”.
In che senso?
“Uno che non era brillante neanche nella malvagità”.
Le chiedeva notizie riservate?
“Ma no! Erano chiacchierate oziose, aveva solo bisogno di far vedere che 30-40 deputati erano iscritti”.
Non si sbilanciava?
“Ogni volta che uscivo da lì mi chiedevo: ma perché mi voleva parlare?”.
Beh, lei era già qualcuno.
“Guardi che per Licio Gelli io ero soltanto un parlamentare da esibire”.
Non capisco perché non andò dalla polizia a denunciare le lettere anonime.
“Perché erano impalpabili”.
Si fidava di più della P2?
“Sbagliai. Le ho già detto che fu un errore totale”.
È in quel momento che comincia a girare con la pistola?
“Sì, l’ho fatto anche dopo, per anni, ora per fortuna non più”.
Le minacce cessarono?
“Sì”.
Cos’era la P2?
“C’erano più livelli. Il principale era il girone degli affari, poi c’erano quello di chi stava lì per ottenere promozioni: generali, servizi segreti, uomini di Stato”.
E lei in che girone stava?
“In quello degli stupidi”.
La P2 c’entra con la strage di Bologna?
“Non condivido quella interpretazione. La situazione italiana nel 1980 era ormai del tutto stabilizzata, per cui non bisognava ’destabilizzare per ristabilizzare’”.
La P2 non era eversiva?
“No. Era costituita per larga parte da topi che stavano nel formaggio”.
Che prezzo pagò dopo la scoperta degli elenchi?
“Con Costanzo fummo gli unici ad ammettere l’iscrizione, ma da quel momento il telefono smise di squillare. Uscii di scena, come un reietto delle isole”.
È vero che Lombardi la schiaffeggiò?
“Falso. Mettere in giro questa voce fu una mascalzonata di Nerio Nesi”.
Sappiamo tutto della P2?
“Penso di no. Ho sempre sospettato che c’erano altri elenchi fatti sparire in Uruguay”.
Quindi lei diventa berlusconiano per rivalsa dopo la P2?
“Non c’entra niente”.
E allora perché?
“Come reazione a Mani Pulite, che aveva annientato il mio partito”.
Il Psi non si annientò da solo sotto il peso delle tangenti?
“Ma guardi che le tangenti c’erano per tutti, anche per il Pci, che invece venne risparmiato dalla morsa poteri forti-magistratura”.
Ma il suo approdo a Berlusconi non è uno schiaffo a tutta la sua storia di sinistra?
“Io vado con Berlusconi in contrapposizione alla deriva giustizialista dei ragazzi di Berlinguer, Veltroni e D’Alema, e per riacquisire una dialettica di alternanza”.
Ancora nel 1994 lei si schiera con Occhetto e contro Berlusconi.
“La seconda cavolata della mia vita. Ma in quel momento prevalse ancora la logica patriottica socialista perché quel che rimaneva del Psi rimase in alleanza col Pds”.
E poi?
“Quando Veltroni pose il veto alla candidatura di Enrico Manca, il presidente della Rai che era stato il più vicino al Pci, capii che noi socialisti saremmo stati del tutto subalterni. Proposi di mantenere il Psi nella parte proporzionale della lista, proposta bocciata”.
Quindi sceglie il Cavaliere in odio?
“Per rivalsa politica. Ci avevano massacrati. E come diceva Pertini: a bandito, bandito e mezzo”.
Chi la porta da Berlusconi?
“Cossiga. Aveva fatto l’Udeur e ci portò ai primi incontri col Cavaliere. Nacque una sintonia. Berlusconi aveva capito che i dirigenti Mediaset non gli bastavano, che serviva gente più qualificata”.
E lei si fece avanti?
“Gli mandavo dei biglietti, dei consigli. Scattò un meccanismo”.
Com’è stato possibile difendere le leggi ad personam?
“Erano una forma di autodifesa da un incredibile attacco giudiziario”.
Mah!
“Spesso non sono servite a niente”.
Ma cosa ha lasciato Berlusconi, a parte proteggere le sue aziende?
“Ha il merito storico di aver riavviato la dialettica democratica tra i poli. E con le sue tv, e il Milan, ha svolto un’egemonia nazionalpopolare di tipo gramsciano”.
Che ricordo ha dell’uomo?
“Voleva sedurre chiunque incontrava”.
Come spiega l’amicizia con Putin?
“Per dirla con un paradosso: era un rapporto omosessuale di tipo mentale”.
Cioè?
“Di reciproca ammirazione. Silvio ammirava in Putin l’uomo forte, Putin vedeva in Silvio l’uomo di successo. Però era paritario. Berlusconi credeva di poter portare Putin nell’Occidente”.
Cosa ne pensa?
“Io già allora ritenevo Putin molto pericoloso. L’ho studiato a lungo e penso che la sua componente ideologica, rifare la Grande Russia, sia pari alla sua componente criminale”.
Da quanti anni fa politica?
“Ho cominciato a leggere i giornali a dieci anni. E ancora adesso, che ne ho 83, esco ogni mattina all’alba per comprare dieci quotidiani”.
Grazie.
“Sto finendo di scrivere un libro, l’Antistoria d’Italia”.
E ha scoperto chi le mandava quelle lettere anonime?
“No, non l’ho mai saputo”.