la Repubblica, 31 marzo 2024
Intervista Susanna D’Inzeo
Iraggi del tramonto illuminano una ventina di trofei allineati sugli scaffali della grande libreria bianca. Accanto al divano, su un tavolino, una fotografia in bianco e nero ritrae tre cavalieri medagliati. Uno dei tre è Raimondo D’Inzeo, il più grande cavaliere italiano di tutti i tempi. Medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma nel 1960, due volte campione del mondo, solo per citare le vittorie più famose.
Susanna D’Inzeo, com’era suo padre?
«La vede questa foto? È stata scattata a piazza di Siena negli anni Sessanta.
Ci sono i tre campioni: Graziano Mancinelli, mio padre e il fratello Piero. Graziano e Piero sono serissimi, tutti compresi nel ruolo, mentre papà ride come un matto.
Ecco, rende molto bene l’idea dei tre caratteri».
E tra le mura di casa?
«Simpatico, ma anche molto militare, severo. Ti guardava e noi figli stavamo tutti sull’attenti. A me ha dato solo due schiaffoni in tutta la vita, ma solo perché mia madre l’aveva obbligato a farlo».
Con voi figli?
«Purtroppo molto assente, per forza di cose. Per esempio, non c’era mai il mio compleanno, c’era sempre una gara a Parigi o a Bruxelles o a Londra.
Mi mandava ogni volta un bigliettino con gli auguri e su uno di questi, che conservo, c’è pure un mio lacrimone.
Non credo sapesse nemmeno in che classe stavamo».
Molti padri di quella generazione erano così, no?
«Forse sì. Però devo dire che, invecchiando, è molto migliorato. È stato un nonno fantastico, stava spesso in campagna da noi in Umbria. Mi ricordo che una volta, guardando la nostra vigna, gli scappò fuori: bel vigneto, ma qua ci verrebbe bene un maneggio».
Soffriva la vecchiaia, aveva paura della morte?
«No, non gliene importava niente di invecchiare, perché è restato fino all’ultimo un uomo vivissimo. A 85 anni era andato dal concessionario perché voleva cambiare la macchina».
Montava a cavallo anche da vecchio?
«Scherza? È montato a cavallo fino a pochi mesi prima di morire, nonostante i tanti problemi di salute.
Mia madre, che era molto più mortifera, gli diceva: ma che fai? Vai a a romperti il collo! Ma non c’era niente da fare. È rimasto in sella finché ha vissuto. Era un incosciente, come tutti i grandi campioni».
Amava la vita…
«Sì e amava tutti gli sport. In particolare adorava sciare, solo che c’è stato il problema della morte di mia sorella in un incidente di sci a Cortina. E quindi per anni noi non siamo più andati».
Lei quanti anni aveva?
«Era il 1966, avevo 6 anni. È successo sulla pista di Col Drusciè. Era andata con papà, è scivolata su una lastra di ghiaccio, ha sbattuto la testa su un albero. C’era un tempo terribile e non sono riusciti a portarla in elicottero».
Cosa successe dopo?
«Può immaginare una tragedia del genere sulla mia famiglia. Ma, per farle capire chi era mio padre, quando anni dopo – ormai avevo 18 anni – decido di riprovare a sciare, mio padre mi vede e non capisce più niente dalla gioia. Avevamo una baita sopra Rogoredo e mi fa, “vieni con me”. Mi porta in cima alla pista più alta, e io: papà, ma come scendo adesso? Alla fine dovetti scendere con un maestro. Anche quella volta mia madre, che aveva messo il veto sullo sci, gliene disse di tutti i colori».
Cavallo, sci…che altro?
«Tennis, golf, tutto. Diceva sempre: “se uno sa montare a cavallo può fare qualsiasi sport”. E poi aveva l’orecchio assoluto, si metteva al pianoforte e improvvisava pur non avendo mai studiato la musica».
Suo padre è stato il piùgrande e medagliato cavaliere italiano. Con il fratello Piero, grande campione olimpico anche lui, c’era rivalità?
«Tutti hanno cercato di ricamare su questa storia, fin da piccola mi sentivo chiedere: chi è più bravo, papà o zio? Ma in realtà erano legatissimi. Due caratteri completamente diversi. Papà, come vi ho detto, era un allegrone, mentre zio Piero era molto più serio. Con papà saresti andato in vacanza ma, se avevi un problema, era zio che ti stava a sentire».
Suo padre viveva più il momento, carpe diem?
«Ecco è così. Credo che sia stata unpo’ una reazione alla morte di mia sorella, ai sensi di colpa che aveva perché quella mattina, a sciare con quel tempo, c’era andato lui».
Come ha vissuto la perdita della figlia?
«Si è curato con i cavalli, quando era in sella non pensava più a niente, c’era solo il presente».
Due fratelli nell’Olimpo mondiale dell’equitazione, ma Raimondo sempre primo con la medaglia d’oro al collo, Piero spesso secondo…
«Mi ricordo zio Piero davanti alla bara di papà, in lacrime, che disse: mi hai fregato anche questa volta, non è giusto, dovevo morire prima io. È morto tre mesi dopo».
Come è diventato cavaliere suo padre?
«Per il nonno Costante era Piero il figlio perfetto. A cavallo aveva uno
stile impeccabile, mentre Raimondo all’inizio aveva paura».
Raimondo D’Inzeo aveva paura dei cavalli?
«Eh sì! E mio nonno, per la delusione, non gli rivolgeva più la parola. Per cui, quando alla fine è stato costretto a rimontare a cavallo, per Raimondo lo scopo era battere Piero, essere pari o migliore rispetto al fratello perfetto».
Diversi anche in sella stava dicendo…
«Se Piero doveva rinunciare al suo stile e scomporsi in sella per vincere una gara, preferiva rimanere perfetto e perdere con eleganza. Raimondo, al contrario, sapeva inventarsi di tutto.
La cosa importante era vincere. Solo su una cosa non transigeva: il benessere del cavallo».
Nella vita e in gara era un impulsivo?
«Senza dubbio. Senta questa: una volta andò in Irlanda da commissario tecnico della Federazione insieme al grande campione Giorgio Nuti. Si trattava di comprare dei cavalli per la squadra italiana. Giorgio montava i cavalli e papà stava a guardare. A un certo punto gli allevatori inglesi tirano fuori questo cavallo che a papà piaceva tantissimo, il problema era che Nuti non riusciva a farlo saltare.
Al che gli fa: Giorgio, adesso scendi per favore. E sale in sella così, con i mocassini, in giacca e cravatta.
Naturalmente fa dei salti pazzeschi.
Questa me l’ha raccontata Giorgio stesso».
La vittoria più bella?
«Sicuramente le Olimpiadi a Roma nel 1960. Ma lo sa che cosa gli rodeva da morire? Non aver mai vinto il King George V a Londra, il concorso che zio Piero aveva vinto due volte. Per papà era una sofferenza, un nodo non sciolto».
Suo padre le insegnava a cavalcare?
«Io andavo in caserma con lui a montare. Ma era una cosa micidiale.
Papà mi urlava davanti a tutti: sei un sacco di patate! Ero offesissima.
Oltretutto, essendo la figlia di D’Inzeo, i carabinieri mi davano sempre i cavalli più cattivi. Ero terrorizzata. Se cercavo di spiegargli perché avevo fatto una determinata cosa, mi diceva: stai zitta, non si parla in maneggio! Finché un giorno non ci ho visto più, ho lasciato il cavallo in mezzo al maneggio, sono scesa e gli ho detto: mi dispiace ma questo sport non fa per me».
Che carabiniere era?
«Un carabiniere vero, faceva i picchetti, tutto».
Comprese le cariche. Rimase famosa quella a porta San Paolo. A guidare lo squadrone a cavallo contro i manifestanti c’era suo padre. Ne parlava mai?
«Si, mi diceva: mi hanno comandato e io ho dovuto ubbidire. Non mi è piaciuto ma che dovevo fare?».
Non era un fascistone dunque?
«No, e anche come militare era un irregolare. Se doveva dire qualcosa in faccia, non riusciva a starsene zitto, al di là dei gradi. Per esempio, il generale De Lorenzo lo lasciò a piedi».
De Lorenzo quello del Piano Solo?
«Quello. Ce l’aveva a morte con mio padre e ci fu uno scontro tra i due. De Lorenzo lo trasferì a Milano e gli tolse tutti i cavalli per darli al figlio. Tenga presente che D’Inzeo era già D’Inzeo, il più grande cavaliere al mondo in quel momento».f
Ha vinto Giochi e mondiali ma all’inizio non voleva fare questo sport
Poi si convinse solo per battere il fratello