Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 30 Sabato calendario

Sul cinema medievaloide

Chi tra i boomers non ha mai partecipato a una scenetta tra amici con scambio di citazioni dell’Armata Brancaleone, il film di Mario Monicelli che ha segnato l’immaginario di una generazione intera? La voce di Vittorio Gassman che recita stentorea «L’omo a lo mio servizio non teme né piova né sole né foco né vento» rimbomba ancora nelle teste dei nati tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Lì cominciava la breve storia del cinema d’ispirazione medievale, che avrebbe portato registi di primo piano e attori di grande talento a guardare all’età oscura per specchiare il proprio tempo: perché il Medioevo forniva uno spazio della contraddizione, dove tutto era mitico e tutto era ridicolo, ma soprattutto tutto era proibito e tutto era lecito.
Prima c’era stato, in verità, La mandragola di Alberto Lattuada (con Philippe Leroy, Nilla Pizzi e persino Totò), tratto dalla commedia omonima di Machiavelli, ma il film di Monicelli innestava il demenziale sul lubrico, con straordinari effetti comici, fondati sulla demistificazione dell’eroe cavalleresco, il rilancio del maccheronico e il trionfo della parodia: ai villani arruolati nella sua armata sgangherata Brancaleone prometteva infine «castella, ricchezze et bianche femmine da grandi puppe». Qui era la chiave decisiva per il successo: in un’Italia ancora fortemente puritana, dominata dall’oscurantismo democristiano, ma nel pieno del boom economico e alla vigilia del Sessantotto, un gruppo di registi della commedia all’italiana decideva di puntare sul Medioevo come occasione per una liberazione dei costumi, una sfida all’autorità e un invito alla risata. «Un divertimento libertino che celebra il trionfo dell’intelligenza e della sensualità contro la superstizione e il bigottismo», recita il Mereghetti a proposito del film di Lattuada.
I primi titoli erano però parlanti, perché dall’ambizione culturale al solleticamento piccante il passo era brevissimo: Una vergine per il principe, L’arcidiavolo e Le piacevoli notti, tutti usciti tra il 1965 e il 1966. I registi erano nomi del calibro di Pasquale Festa Campanile, Ettore Scola, Armando Crispino e Luciano Lucignani; attrici e attori: Paola Borboni, Milena Vukotic, Gina Lollobrigida, Tino Buazzelli, Vittorio Gassman, Nino Castelnuovo, Omero Antonutti, Ugo Tognazzi; le fonti: Machiavelli e Straparola. Una variante colta della Commedia all’italiana, con impiego di talenti, investimenti economici e progetti ambiziosi.
Qui si radica il recupero boccacciano di Pier Paolo Pasolini col Decameron, che è il primo film della «trilogia della vita» (tutta medievale, completata con Il fiore delle Mille e una notte e I racconti di Canterbury): il Medioevo come possibilità di ripartire al di qua della modernità, tornando alla natura, al piacere dei corpi, alla dimensione istintiva e primigenia. Era un progetto ideologico, quello di Pasolini, all’insegna della contestazione della società borghese e di una palingenesi morale e civile.
Da lì nasceva, però, un genere vero e proprio, che sfruttava il potenziale pruriginoso dell’universo narrativo medievale e rinascimentale. Venne chiamato decamerotico, benché Boccaccio c’entrasse davvero poco. I titoli sono esemplari: si va da riferimenti a singole storie, come Una cavalla tutta nuda (dalla novella di Gemmata, IX 10) e Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno (dalla novella di Alibech, III 10), a proposte didascaliche quali Il Decamerone proibito, Le calde notti del Decameron, Sollazzevoli storie di mogli gaudenti e mariti penitenti, e Decameroticus. Le più divertenti novelle erotiche del Boccaccio, fino ai richiami letterari di Fratello homo sorella bona (Nel Boccaccio superproibito), e Quando le donne si chiamavano madonne. Del progetto originario non si salvava nulla, perché l’obiettivo era quel soft porn che tanto piaceva al pubblico italiano di quegli anni. Non riuscivano a risollevarlo neppure Fellini, Visconti e De Sica (insieme con Monicelli) col ben più ambizioso Boccaccio 70, dove le vicende di coppie delle media borghesia italiana venivano interpretate alla luce del capolavoro boccacciano e della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta.
Erano passati quarant’anni da quando, in occasione del processo all’Amante di Lady Chatterley, D.H. Lawrence aveva chiamato in causa proprio Boccaccio per sostenere che la vera pornografia era quella di chi suggeriva senza mostrare, allettando le perversioni del lettore, come nei romanzi di George Eliot, Charlotte Brontë o Edith Maud Hull, mentre i grandi scrittori del Rinascimento italiano (con Boccaccio: Aretino e Lasca) avevano soltanto rappresentato la realtà della vita, l’attrazione dei corpi e la verità del sesso. Nulla di simile nella cultura italiana, purtroppo, al punto che l’estensione quasi immediata da Boccaccio agli scrittori successivi si può riassumere con due titoli che fanno da epitome all’intera esperienza: …E si salvò solo l’Aretino Pietro con una mano avanti e l’altra dietro… oppure Come fu che Masuccio Salernitano, fuggendo con le brache in mano, riuscì a conservarlo sano.
Questa storia, tra slanci politici, appropriazioni indebite e scadimenti estetici, viene ora ricostruita e commentata da Marco Bardini, professore di letteratura italiana all’Università di Pisa, attento agli aspetti più stravaganti e ibridi della relazione tra letteratura e media (a lui si deve un Boccaccio Pop che si muoveva già lungo questa linea di storia della ricezione, nonché rifunzionalizzazione e rivitalizzazione del classico nel moderno). Si tratta di un tradimento delle origini letterarie o di una risorgenza d’interesse? La questione è se sia lecito rendere queer la letteratura, come oggi si dice: immetterla cioè nell’orizzonte più largo dell’esperienza culturale, che non si può ridurre all’idolatria del testo e all’esaltazione della forma, ma dovrà tener conto delle intersezioni, delle mescolanze, degli incontri e delle fusioni.
La lunga durata della presenza di Boccaccio nel cinema arriva infatti alla forbice che separa un prodotto trash come Decameron Pie di David Leland e un remake colto come Maraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani. Varrà la pena di leggerlo, questo libro, non solo per divertirsi tra i tanti titoli dall’effetto ormai soltanto comico, ma anche per interrogarsi sul rapporto tra cinema e letteratura, per indagare il destino dei classici nella contemporaneità, per discutere i confini tra midcult e masscult e per rilanciare l’eterna questione del rapporto tra erotismo e pornografia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Marco Bardini
Il cinema medievaloide
1965-1976
Edizioni ETS, pagg. 292, € 28