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 2024  marzo 30 Sabato calendario

Un vaso firmato Fidia

Nel 1874 la nuova Germania conquistò l’antica Olimpia, prezioso gioiello dell’Ellade da incastonare nella corona dell’Impero che era appena nato. I Reali Musei di Berlino iniziarono campagne di scavo, che promettevano di portare alla luce un Eldorado di antichità con prestigiose architetture, mirabili statue e raccolti abbondanti di epigrafi: tutte promesse mantenute. Olimpia era il luogo dei giochi più antichi e solenni, ufficialmente istituiti nel 776 a.C. Giochi «squisitamente razzisti» (Savinio dixit), cui erano ammessi tutti i greci più puri, scartando stranieri, schiavi, femmine e delinquenti. Nel 1936 il Führer si era messo in testa che i tedeschi dovessero per forza discendere dai nobili Elleni, aveva traslato le Olimpiadi a Berlino e sovvenzionato un’altra stagione di scavi, dirette da un devoto Standartenführer delle SS. Negli anni 50 le ricerche ricominciarono da capo e fu scoperto il laboratorio dove Fidia, negli anni 30 del V secolo a.C., aveva fabbricato una delle sette meraviglie del mondo: la gigantesca e splendente statua di Zeus, assemblata su uno scheletro di legno con placche lavorate in oro e avorio, ebano, vetro, smalti e pietre preziose. Il colosso era alto più di dieci metri, destinato al santuario della città, dove faceva sembrare il dio immanente e in grado di donare la felicità, come scrissero alcuni testimoni oculari. Alla fine del IV secolo d.C. il cristianesimo divenne obbligatorio e quell’antichissimo Zeus non servì più. Di lì a poco, un eunuco di Costantinopoli, ciambellano dell’imperatore e amante delle belle arti, lo portò nel suo palazzo dove fu distrutto dal fuoco.
Marzo 1958. In un normale giorno di scavo escono dalla terra i frammenti di un boccale prodotto nel 450-425 a.C., anni in cui Fidia era a Olimpia. Non ha niente di speciale e con gli altri cocci polverosi viene messo in una cassetta, da destinare alla catalogazione e all’oblio. In autunno il vaso viene lavato e sul fondo appaiono due parole incise che lasciano tutti trasecolati: PHEIDIO EIMI = sono (proprietà) di Fidia (con l’antica desinenza del genitivo in O e non in OY). Non è solo la prova provata che gli scavi hanno rivelato l’officina di Fidia: l’umile terracotta conserva l’aura dell’artista, è il cimelio miracolato di un personaggio quasi mitico, una sacra reliquia, e anche per la Chiesa ossi e autografi di santi hanno la stessa potenza divina. C’è anche l’orgoglio teutonico della scoperta e gli oggetti parlanti sembrano più rispettabili di quelli taciturni. La notizia del “coccio di Fidia” fece il giro del mondo, suscitando entusiasmi e scetticismi. In Italia a Cesare Brandi, esperto di storia dell’arte e del restauro, vennero le palpitazioni. Margherita Guarducci, massima epigrafista, fu più composta e riflessiva: a tempo debito avrebbe detto la sua, dopo gli approfondimenti del caso (il proposito non fu mantenuto, almeno per iscritto).
Alcuni professori si misero a fare anche le valutazioni dell’elaborato. Per l’uno il geniale Fidia con la sua mano sicura sarebbe da promuovere a pieni voti. Per l’altro l’incisore non meriterebbe la sufficienza: ha ambizione ma poca padronanza dell’arte scrittoria. Ha la pretesa di impaginare le lettere come in un’iscrizione su pietra, separando le parole con i trattini dei testi ufficiali e giustificando a sinistra. Ma si rivela incerto nella scrittura, ritocca alcuni segni e rimpicciolisce il font verso la fine. E poi: nelle centinaia di incisioni simili i graffiti sono eseguiti da mani più ferme (a margine: sono nomi e spesso sgorbi per segnare l’appartenenza del vaso, senza preoccuparsi dei professori di là da venire).
Dalla scoperta è passato più di mezzo secolo e gli antichisti si sono divisi in due squadre: 1) è stata la mano di Fidia, 2) è stata la mano di un falsario. La seconda fazione ha usato il “telefono senza fili”: opera di un ignoto burlone, di uno studente reo confesso prima di passare nell’aldilà, dell’austero direttore dell’Istituto Archeologico Germanico di Atene. Per porre fine al Rashomon del piccolo mondo antico, si è ricorsi alla disciplina di Platone: contraddire o confermare la soggettiva opinione (doxa) con l’obiettiva conoscenza (episteme). Il microscopio stereoscopico ha rivelato che il graffito è antico, coperto dalla stessa patina del tempo come il resto del vaso. Perfino i sospettosi epigrafisti e gli archeologi miscredenti sembrerebbero (per il momento) rabboniti. È stato dunque Fidia ma a rigore non è detto che sia IL Fidia: il finale è aperto