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 2024  marzo 30 Sabato calendario

30 anni fa Cobain è “bruciato” via. E con lui i suoni di una generazione

Un cancello di legno. Uno sbarramento di vegetazione. No, non puoi sbirciare dentro la casa in stile Queen Anne al 171 di Lake Washington East. Se vai a fare il pellegrino rock a Seattle devi contentarti di un paio di panchine al Viretta Park. Ci puoi scrivere sopra, accendere una candela. Il “memorial site” spontaneo di Kurt Cobain. Il suo spirito è stato scacciato da lì, in ogni caso.
La villa è passata di mano due volte dal maledetto 5 aprile 1994: un anonimo l’ha rilevata quattro anni fa per 7 milioni di dollari da un businessman che ci aveva abitato sin da quando, nel ’97, Courtney Love l’aveva venduta per 2,9 milioni. Non prima di avervi eliminato il garage e la serra: la “crime scene”.
A scoprire il corpo della star, l’8 aprile ’94, era stato Gary Smith, tecnico della VECA Electric. Pensava dormisse, sdraiato sul pavimento. Notò il sangue. E il Remington calibro 20. Malgrado il fucile fosse piuttosto distante dal punto dello sparo in testa, il coroner decretò il suicidio, lasciando a quelli dell’FBI un fascicolo pieno di dubbi. Alimentati dalla lettera che Smith aveva trovato infilzata nel terriccio con una penna: Kurt si rivolgeva all’amico immaginario dell’infanzia, Boddah. Però la prima parte dello scritto sembrava solo un commiato dai Nirvana e dal circuito artistico: non si divertiva più a fare concerti, invidiava l’eccitazione che Freddie Mercury aveva provato sui palchi. Lui invece era depresso, disilluso, drogato marcio. Con un eterno dolore allo stomaco provocato da una scoliosi mai curata. Dopo una citazione da Neil Young (“meglio bruciare che spegnersi lentamente”) il tono dello scritto cambiava di colpo: questo era un addio alla vita, la preghiera a Courtney di badare all’adorata figlioletta Frances Bean, lo straziante “VI AMO” ripetuto due volte. Anche la calligrafia sembrava diversa. A volerci veder chiaro è il detective Tom Grant: va subito dall’avvocato Rosemary Carroll, che gli mostra un documento informale in cui Cobain annuncia la volontà di divorziare, escludendo la consorte dall’asse ereditario: più una nota di pugno di Courtney. La cui scrittura è simile a quella delle ultime righe della lettera di Kurt. Basta questo, e la mancanza di impronte del morto sul grilletto, per riaprire il caso? Nel ‘98 ci prova il regista Nick Broomfield: per il docu-film Kurt & Courtney intervista Eldon Wayne Hoke, leader dei Mentors. Hoke, detto ‘El Duce’, sostiene di aver rifiutato la proposta di ammazzare Cobain. Mandante la Love, compenso 50 mila dollari. ‘El Duce’ afferma di sapere chi abbia accettato la missione, ma non ne fa il nome. “Lo scopra l’FBI”. Quattro giorni più tardi, Hoke si porta le sue verità all’inferno: un piede gli resta incastrato sui binari che stava attraversando, un treno in corsa lo maciulla. La teoria del complotto lievita come una focaccia avvelenata. Nessuno dimostrerà l’ipotetico coinvolgimento della vedova dell’idolo del grunge. Una volta elaborato il lutto commenterà: “È stato un coglione, ci ha lasciate sole”. E a tempo debito poserà per un sensazionale scatto di David Lachapelle: lei una Madonna profana che sorregge un modello sosia di Kurt nella posa di una Pietà ultrarock. Comunque, sottolineano gli innocentisti, non era stata proprio Courtney ad assoldare Grant a inizio aprile ’94, quando Kurt era “evaso” dopo sole 24 ore dalla clinica di riabilitazione di Los Angeles? Era tornato a Seattle ma NON a casa. Dormiva qui e là, pareva sparito.
E non era stata la moglie a salvarlo un mese prima a Roma, alla fine di una notte tra eroina, champagne, sesso e Roipnol à go-go? Cobain era tornato il 2 marzo nella Città Eterna dopo il tumultuoso live dei Nirvana il 22 febbraio al Palaghiaccio di Marino. Vacanze romane in attesa che Courtney e Frances lo raggiungessero da Londra. Il frontman bighellona con il chitarrista Pat Smear. In Vaticano compra rosari per la sua donna, stacca un pezzettino di Colosseo. Orecchìni di diamanti. Peccato non funzioni: al risveglio all’Excelsior Courtney vede accanto a sé Kurt in overdose. Nella mano sinistra lui stringe mille dollari in contanti. Lo portano al Policlinico Umberto I, lo dichiarano legalmente morto, riportandolo in vita con una lavanda gastrica. Trasferito all’American Hospital sull’Aurelia, Kurt sente il primario Osvaldo Galletta dirgli: “Stacchi la spina. Nessuno è mai morto per troppo riposo”. Ma il degente non ascolterà il medico. Odia se stesso e il successo globale di Nevermind. Non si sente alfiere della Generazione X, quella dei disperati in crisi dopo i successi dei genitori Baby Boomer. Suo padre gli dava dello sfigato, la madre cambiava amanti e mal sopportava il figlio. Ha sempre negli occhi l’immagine del compagno di scuola impiccatosi nel bosco. Gli fa male lo stomaco. Gli brucia l’anima. Meglio spegnersi di colpo.