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 2024  marzo 30 Sabato calendario

Intervista a Joe Jordan

Lo Squalo atterrò a Linate il 3 luglio 1981, c’erano mille tifosi pieni di speranza: il Milan era appena tornato in A dopo il castigo del calcioscommesse, contava di rinverdire tradizioni e ambizioni e invece retrocesse ancora. Lo Squalo rimase e lo riportò tra i grandi, prima di rientrare in Premier giocò ancora un anno in Italia nel Verona. Lo Squalo era Joseph “Joe” Jordan, centravanti scozzese: lo chiamavano così perché, da ragazzo, aveva perso gli incisivi superiori in uno scontro di gioco.
Joe Jordan, ricorda quando successe?
«Al debutto con il Leeds, squadra riserve: un difensore del Coventry mi colpì in faccia con un calcio mentre cercavo di colpire il pallone di testa in tuffo. Misi una protesi, ma usarla in campo era pericoloso: la toglievo soltanto per quello, è una cavolata che lo facessi per impaurire gli avversari».
I suoi primi gol?
«Ai tornei di Cleland, il villaggio di minatori vicino Glasgow dove sono cresciuto, e nell’accademia del Blantyre Victoria. Al tempo, però, giocavo centrocampista. A Morton, con la maglia del Greenock, il decollo: per un po’ mi sono diviso tra allenamenti, scuola e apprendistato come designer nell’edilizia, poi ho scelto di dedicarmi al calcio e 8 partite in prima squadra bastarono per aprirmi le porte dei Peacocks».
La volle personalmente il leggendario coach Don Revie.
«La cosa incredibile è che quando venne a vedermi, in una partita di Texaco Cup contro il West Bromwich Albion, per problemi di formazione fui schierato da stopper: marcatore di Jeff Astle, attaccante di lungo corso, che aveva partecipato con l’Inghilterra ai mondiali messicani».
Vinse un campionato, una Coppa delle Fiere e una Coppa d’Inghilterra...
«Nelle finali delle due coppe, in realtà, non giocai: ero giovanissimo, aggregato alla prima squadra. Il trofeo europeo lo strappammo alla Juventus: il mio primo viaggio all’estero fu a Torino».
Due finali le perse: Coppa delle coppe contro il Milan e dei Campioni contro il Bayern.
«Rimpianti che mi porto dentro. Gli arbitraggi non furono felici e basta riguardare le immagini per capire che non è un alibi di comodo».
Stregò il club tedesco.
«Pochi giorni dopo la finale di Parigi eravamo in Spagna per una tournée di fine stagione e mentre prendevo il sole nella piscina dell’hotel un cameriere venne a dirmi che il signor Dettmar Cramer mi desiderava al telefono: era il nome del tecnico bavarese. Mi guardai attorno e non vidi Giles e Bremner, i burloni del gruppo, così immaginai uno scherzo e chiesi a McQueen di rispondere al mio posto».
Come andò?
«Capì che si trattava davvero di Cramer e, fingendosi me, diede disponibilità al trasferimento a patto che ingaggiasse anche un bravo difensore del Leeds: lui».
Risposta?
«Non serviva, avevano già Beckenbauer e Schwarzenbeck: Gordon abbozzò e, tornato in piscina, rimase vago: “Parlava tedesco, poteva sul serio essere Cramer”. Io capii che era tutto vero due giorni dopo quando mi cercò ancora e mi passarono la chiamata in camera. Dissi sì, ma fu inutile: le società non trovarono l’accordo».
Tre anni dopo si fece avanti il Manchester United...
«Accettai senza pensarci un secondo: da bambino, oltre che per il Celtic, tifavo per i Red Devils che erano leggenda. Tre belle stagioni, nella piena maturità: segnai 37 gol, nel 1979-80 arrivammo secondi».
Alla scadenza del contratto, scelse il Milan...
«Mi corteggiavano due squadre inglesi, ma in First Division non volevo vestire altre maglie. Ad aprile andai a vedere Liverpool-Bayern, semifinale di Coppa dei Campioni, e incontrai un giornalista italiano, Tony Damascelli: mi chiese del futuro e gli confidai che nulla era deciso, fu lui a segnalarmi ai dirigenti rossonero».
Così vestì la maglia di Gianni Rivera, un suo idolo...
«Mi piaceva tantissimo la sua eleganza: rimasi stregato dalla sua prestazione nella finale di Coppa dei Campioni del 1969 contro l’Ajax».
Milano le riservò un’accoglienza straordinaria.
«Avevo 30 anni ed ero abituato al grande calcio, eppure in aeroporto mi emozionai. Ci tenevo a ripagare l’amore della gente e per questo ero felice dell’ottima partenza in Coppa Italia: due reti al Pescara e una all’Inter in un derby attesissimo la sofferenza in Serie B».
Fu un’illusione...
«Non è semplice misurarsi con culture, lingue e tattiche nuove, abituarsi a vivere di calcio 24 ore al giorno per 7 giorni. Io scontai l’ambientamento, ma tutta la squadra ebbe problemi: in campionato segnai appena due gol e alla fine rotolammo in B».
In B andò molto meglio.
«C’erano ragazzi bravissimi, destinati a ottime carriere: Battistini, Evani, Tassotti, Icardi, Romano. Anche Baresi era giovane, 22 anni appena, ma stava su un piano diverso: era già maturo, un campione formato».
Lei segnò 10 reti, ben 9 di testa: uno specialista.
«In quel momento in Italia eravamo tanti: Bettega, Pruzzo, Altobelli, Graziani, Serena che era mio gemello nell’attacco rossonero: ci aiutava anche il tipo di gioco, si puntava molto su discese e cross delle ali».
Lasciò con la promozione, ma due stagioni sono bastate per farsi amare: in occasione dei 110 anni di storia del club, sono stati scelti i 110 calciatori più importanti di sempre e lei c’era.
«Difficile da spiegare, credo possano rispondere meglio i mie compagni: ho cercato di dare tutto, in campo e nello spogliatoio, di ripagare la fiducia di club e tifosi. Sono rimasto legato alla città: mia figlia Caroline vive lì».
La chiamò Mascetti, direttore sportivo del Verona...
«Dissi sì per la passione dei tifosi e la serietà del progetto. Purtroppo ebbi problemi fisici e dopo il recupero faticai a rientrare perché Iorio e Galderisi andavano fortissimo. Eravamo un gruppo vero, Bagnoli era fantastico, con molti compagni come Volpati ci sentiamo ancora. Arrivammo sesti e su quella base, con innesti mirati, l’anno successivo arrivò uno scudetto storico».
Lei tifò dall’ Inghilterra...
«Ero andato al Southampton, ritrovando continuità: giocai tutte le partite e arrivammo quarti. Dopo tre anni passai al Bristol, dove poi cominciai la carriera in panchina».
Ultima esperienza da tecnico nel 2021 a Bournemouth, vice di Jonathan Woodgate.
«È un amico e sono stato contento di dargli una mano. Ora, però, basta: a 72 anni faccio il nonno».
È stato vice anche di Harry Redknapp al Tottenham: memorabile, a San Siro, la lite con Gattuso.
«Due caratteri forti, passionali, istintivi: cose di campo, è finita lì».
Conta 52 presenze e 11 gol in Nazionale.
«Se ripenso al debutto contro l’Inghilterra sento ancora i brividi. Ho avuto la fortuna di fare gol in tre Mondiali, convocato da tre Ct diversi».
Per ogni stagione in Nazionale, la Federazione scozzese regalava un cappellino da collezione...
«Aspettavo l’ultimo quand’ero al Milan, a Glasgow giuravano d’averlo spedito però non arrivava. Alla fine si scoprì che, confondendosi, l’avevano inviato nella sede dell’Inter». —