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 2024  marzo 30 Sabato calendario

Intervista a Gene Gnocchi

«È una domanda molto simile a quella che ci eravamo già posti in piena pandemia, se “ridere di” e “ridere durante” certi momenti particolarmente drammatici è sempre possibile. E io dico: dipende dalla sensibilità di ciascuno. Sulla guerra, sui conflitti che sono in corso, io preferisco astenermi». Gene Gnocchi riflette con animo meditabondo sui tempi cupi che stiamo vivendo e su quanto influiscano sul mestiere del comico. Pochi giorni fa, ci racconta, era da Serena Bortone a «Chesarà...», su Rai3, e passavano le immagini dell’attentato al Crocus City Hall. «Cosa vuoi dire? Resti senza parole, prendi atto dell’orrore e ti taci. Diverso – continua – quando a inizio invasione dell’Ucraina, che ancora non pareva neppure vera a molti, provavi a fare qualche battuta, cercavi di vederne qualche aspetto ridicolo».
E si riusciva a trovarne?
«Ricordo battute sul fatto che il fine di Putin non fosse una “operazione militare speciale” quanto un’operazione di ammodernamento architettonico per creare nuovi open space. O, ancora: meglio non rattoppare le nostre strade e ricostruire i ponti, lasciamo come sono le nostre infrastrutture, perché così gli aerei russi se ci sorvolano pensano di averci già bombardati e ci lasciano in pace. O, ancora, alla comparsa di una nuova genia di opinionisti in tv, gli ex virologi riconvertiti a opinionisti geopolitici, o alla scoperta di nuovi talenti comici che prima facevano tutt’altro, magari i docenti universitari (e adesso sono sbarcati a teatro dove ci rubano il lavoro). Non li avremmo mai conosciuti se non scoppiava la guerra».
Dal palco avete il polso del pubblico in materia: che impressione ne ricava lei?
«Lo sento distratto e incredulo. Gli italiani non hanno ancora ben recepito quanto la guerra sia vicina e possibile anche qui da noi. Lo si coglie nettamente. Così come si percepisce un’atmosfera diversa nell’aria».
Ossia?
«Il riso si fa quasi isterico, amaro. La voglia di divertirsi resta ma è per esorcizzare la morte. È un bisogno indefettibile e irrinunciabile dell’uomo. Fa parte del nostro animo cercare un momento liberatorio che faccia dimenticare».
Ma voler ridere su certi temi in certi momenti storici, stravolgerli per buttarli in risata, non è anche espressione di una rabbia che abbiamo dentro?
«È una rabbia che nasce come reazione alla disperazione, alla coercizione e alla rassegnazione. Quando sei stanco di tante brutture imposte il passo successivo è rimuovere almeno per un po’ i pesi della vita. E ridere fa dimenticare, almeno momentaneamente».
Non pensa che la guerra in Medioriente così polarizzante – se non sei con me, sei contro di me – abbia ulteriormente complicato il vostro lavoro?
«Certamente. Fuori dal discorso del comico, basta vedere le reazioni al proclama di Ghali sul palco di Sanremo perché ha usato la parola genocidio. Devi muoverti con ancora maggiore circospezione. Non solo le parole vanno pesate, anche le pause. È un terreno scivolosissimo. È il campo (minato) del bilanciamento tra le due parti: esprimere l’orrore del massacro operato da Hamas e domandarsi fino a quanto può spingersi la reazione ad esso. Tuttavia penso che sia sempre possibile trovare una strada, un modo espressivo. Il focus guerra, distruzione e prevaricazione è ostico anche perché sai che davanti puoi trovarti sempre chi sulle parti in campo si è schierato e pontifica una sua soluzione. E non si presta affatto a essere irriso. Ma invece ti ritorce contro e deforma quello che hai detto. Sono i famosi effetti collaterali della comicità. Ecco anche perché non ci penso proprio a praticare certi temi».
Ma non è autocensura?
«No, è scontrarsi con chi è incapace di vedere il vero nel falso e il vero nel vero. Tutti ormai assuefatti al mondo delle fake news, delle frasi prese, tagliate e decontestualizzate, pronte per essere manipolate. È l’uso distorto di una frase di cui sono pieni i social (e non solo). Per questo preferisco non a fare certe battute. O comunque sto attento a calibrarle al massimo. Insomma, non so. È autocensura o responsabilità? Comunque, è autoconservazione, visto che davvero la manipolazione è sempre dietro l’angolo e quello che dici diventa pericolosissimo».
Insomma, son tempi bui. Meno male che c’è il calcio?
«Ma anche lì... Sono 15 anni che tengo una rubrica sulla Gazzetta ed è sempre peggio. Ogni affermazione, ogni battuta che fai (e me ne vengono tante) vengono lette e interpretate in chiave dietrologica come esiti di presunti complotti e interessi personali a favore di questo o di quello. Amo il calcio, lo pratico, ma questo ciarpame mi fa cadere le braccia. Anche qui non si può più dire nulla. Però non mi arrendo. Anzi direi che ho imparato molto».
Progetti futuri?
«Sto scrivendo un nuovo testo, che si presterebbe a diventare una miniserie per la tv o per il web: su una scuola, la “Martiri di Daniele Capezzone”, dove si forma quella nuova e variegata professione che sono gli opinionisti tv (geopolitico, virologico, calcistico, da Isola dei Famosi, da Temptation Island...) e si insegnano tutti i trucchi per essere sempre prestazionali in tv. D’altronde, se non hai un’opinione qualsivoglia non fai tv e non fai tv se non hai un’opinionista». —