Corriere della Sera, 27 marzo 2024
Sul treno con l’altro Singer
Chi non vorrebbe – oggi – fare un passo indietro di un secolo per sedersi nel vagone ristorante, confortato da un buon tepore, del treno Berlino-Varsavia-Mosca, per ascoltare le conversazioni che si svolgono in varie lingue, con qualche parola di yiddish fra i chiassosi americani in cerca d’affari, il diplomatico polacco, i francesi, i russi e cinesi; o magari soltanto per guardare il paesaggio?
Israel Joshua Singer, fratello maggiore del futuro Premio Nobel Isaac Bashevis Singer, c’era su quel treno del 1927 che attraversava le sterminate pianure, la steppa, i boschi di betulle. Giovane intellettuale dal carattere difficile, imbevuto di cultura ebraica e socialismo, già era stato una prima volta in Russia, fuggendo dalla Polonia e dalla sua famiglia, nel 1918. Il treno, in quell’epoca, procedeva con la velocità delle lumache, e ogni tanto doveva fermarsi in qualche piccola stazione per permettere ai fuochisti di ricaricare la legna. Ma a Mosca, il comunismo di guerra, sostenuto dall’entusiasmo rivoluzionario, a Israel Joshua era sostanzialmente piaciuto. Adesso, e in così poco tempo, molte cose erano cambiate: la Russia rivoluzionaria si stava imborghesendo; la Nep, la nuova politica economica, era un fallimento; crescevano la povertà e, grazie alle gigantesche carestie, la fame; gli orfani, i figli di nessuno a piedi nudi nel gelo, chiedevano l’elemosina nei ristoranti e dormivano nelle fogne; le tradizioni yiddish deperivano; l’antico antisemitismo riprendeva il suo sfrontato vigore; si confondevano vecchio e nuovo, luci e ombre. Cosa avrebbe visto con i suoi occhi lo scrittore ebreo polacco sbarcato a Mosca, e poi nello sterminato Paese che era stato invitato a visitare da Abraham Cohen, editore del giornale yiddish newyorkese, «Forverts»? La nuova Russia (pubblicato per la prima volta in Italia da Adelphi, a cura di Elisabetta Zevi) è il risultato molto interessante, e attuale, di questo secondo viaggio in Russia, Bielorussia, Ucraina e Crimea. Immagini e impressioni, colte sul momento, del mondo dei soviet e di quello ebraico orientale, filtrate dallo sguardo freddo di un narratore privo di pregiudizi negativi, e tuttavia attento, capace di pronosticare i disastri futuri.
A Mosca, bellissima, è sabato sera. I rintocchi lenti delle campane si sciolgono fra le sue cupole dorate, i parchi, le mura di pietra verde e le guglie del Cremlino. Sul mausoleo nel quale è conservato il corpo imbalsamato di Lenin, arde una fiamma eterna. Al di fuori di una piccola chiesa ortodossa è appeso un grande manifesto nel quale sta scritto: «La religione è la droga degli operai e dei contadini». Sulla porta, centinaia di fedeli si accalcano per comprare una candela da accendere in onore della santa vergine Maria. Poco lontano, prostitute bambine di dodici o tredici anni offrono il loro corpo. Le bische sono ovunque. Nelle bettole, le donne sono sfacciatamente sedute sulle ginocchia degli avventori. Con la paga del sabato spesa nell’alcol, gli operai ubriachi sono stesi per terra. Ai negozi delle cooperative, dove si può comprare di tutto a prezzi pazzeschi, le file girano l’isolato. Da un luogo indefinito, una radio trasmette discorsi politici ad altissimo volume. I ragazzini di strada a piedi nudi raccattano di tutto. I venditori ambulanti offrono libri sgualciti di Lermontov, pezzi di carne, biancheria femminile. Per strada si incrociano tatari, armeni siriani, cinesi, mendicanti storpi. Un marito prende a manrovesci la donna che vorrebbe trascinarlo a casa. Qualcuno ha gridato: «Sporco ebreo!». Da un vicolo escono drappelli di proletari inneggianti alla rivoluzione. I cinema sono illuminati a giorno. Sulla Arbat, la strada centrale del lusso di una volta, si mangia e si beve, ma l’atmosfera è cupa, malinconica, perché tutti coloro che stanno seduti ai tavoli sanno che ci sono occhi invisibili che li stanno spiando, che da un vicino cordiale e sorridente potrebbe arrivargli la carognata, la lettera anonima, il colpo secco alla porta, l’irruzione che potrà spedirlo chissà dove. «Signore», chiede a I.J. Singer un bambino lacero e scalzo, «non so dove dormire, stanotte. Mi dia un copeko».
Mescolanze
Gli ambulanti offrono libri sgualciti, pezzi di carne, biancheria. Si incrociano tatari, armeni, cinesi
Lontano, dove le steppe sono infinite e l’occhio deve riequilibrarsi su distanze, non solo geografiche, immense, e lo stesso tempo trasforma gli spazi in allucinazioni sospese che paiono fuori del tempo, quel fervore, quella finta allegria, la paura, il sospetto e le dissolutezze della capitale non arrivano, sono un’eco sbiadita. La politica si fa nelle spartane stanze dei soviet tappezzate di ritratti di Lenin, ma più che sull’ideologia comunista i dibattiti vertono sui problemi concreti della terra, delle semine, degli animali. Dopo i feroci pogrom e la guerra civile, gli ebrei ucraini hanno abbandonato le città e i villaggi devastati alla ricerca di nuove terre, e si sono istallati vicino a comunità di altri ebrei contadini. Ebrei vicini ad altri ebrei che li hanno preceduti e continuano a mandare soldi per acquistare terre in Palestina, dove sognano di tornare, considerando la Palestina come la loro vera patria. Nelle assemblee si parla metà in russo e metà in yiddish. Dai tetti di paglia degli shtetl, fuoriesce un filo di fumo. Dentro gli operai mangiano aglio e pane secco ammorbidito con l’acqua. Le scuole ebraiche sono frequentate da cinquantamila studenti. A Char’kov, poi Charkiv, capitale dell’Ucraina, esistono teatri e case editrici russe, ucraine e yiddish. Nelle fabbriche, fatica duramente una accozzaglia di lavoratori, che comprende anche polacchi, nomadi, tedeschi, lituani, estoni, armeni, coreani, greci, assiri e molti altri. I ragazzi di strada sono pure qui, soprattutto nella stazione, dalla quale vengono scacciati per permettere le pulizie, e sciamano come branchi di topi alle tre del mattino. Le antiche magioni dei nobili con gli infissi sfondati e i vetri rotti sono diventate centri di accoglienza, case di cura per le malattie polmonari dei contadini. Un uomo, coperto da un sacco, chiede al medico di guardia: «Regalatemi una camicia; i pidocchi mi stanno mangiando». Ogni tanto, la polizia irrompe nella comune dei pionieri, ne arresta qualcuno con l’accusa di sionismo e lo spedisce in Siberia. Come uccelli migratori, aggrappati ai treni, i ragazzi di strada abbandonano il gelo e scendono in Crimea, dove è iniziata la primavera.
Dopo la Crimea, Sebastopoli e Odessa, il viaggio di Singer sta per finire. Nello scompartimento del treno che lo riporta verso la Polonia, un uomo col colletto della camicia liso, le scarpe consumate e in testa un cappello da proletario che non riesce a rimanergli in bilico, è attratto dai vestiti chiari, eleganti di I. Joshua. «Siete straniero?» lo individua immediatamente. «Ah siete giornalista. Da dove venite, che vi hanno fatto vedere? Sappiate che è tutto falso quello che avete visto, siete stato abbindolato. La disoccupazione è immensa. La gente muore di fame. Ha paura di parlare. Gli ebrei sono perseguitati. Muoiono uccisi dai goyim, che sono veri maiali, o in Siberia». L’uomo è nervoso, insiste, non accetta le obiezioni del viaggiatore straniero, brucia di rancore e si dispera perché teme di non essere creduto. Poi, scende. E il treno arriva al confine: «Una frontiera che non separa semplicemente due paesi, ma due mondi». Sono le ultime parole del libro, mentre, fittissima, cade la neve.