Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 27 Mercoledì calendario

Ognuno ha lo sport che si merita

Lo sport è un gioco? Sì ma solo quando si perde. In realtà è competizione, agone, lotta, contesa, antagonismo, rivalità. Una guerra dove si vince senza uccidere, diceva l’ex presidente israeliano Shimon Peres, a differenza della guerra vera dove si uccide senza vincere.Messa così, l’attività sportiva sembra la fotografia del capitalismo selvaggio che divide il mondo in vincenti e perdenti. E dove nulla è gratuito, proprio come nell’economia. Non a caso, vincere e guadagnare in alcune lingue occidentali si dicono con la stessa parola. Come il francese gagner, lo spagnolo ganar, il portoghese ganhar. E l’ animuspugnandi appare ancora più chiaramente nell’inglese win, il tedesco gewinnen e l’italiano vincere, derivanti da una radice indoeuropea che ha a che fare con la guerra, la forza, il combattimento.Certo, se pensiamo al calcio, alla Formula Uno, al baseball o alla boxe, dove interesse, abilità e competizione sono ormai una sola cosa, non resta che rassegnarsi. In effetti la sua aziendalizzazione contemporanea allontana sempre più lo sport dall’origine della parola, derivante dal francese antico désport, nel senso di diporto, svago. Poi anglicizzato in disport, come lo chiama il padre della letteratura inglese Geoffrey Chaucer neiRacconti di Canterbury. E all’origine di tutto c’è il latino deportare, letteralmente andare fuori porta. Insomma, evadere.Ma se parliamo di sport con un antropologo l’orizzonte del fenomeno si allarga e si allarga pure il cuore. È quel che succede di fronte a un libro comeLo sport è un gioco ? di Philippe Descola, appena uscito da Raffaello Cortina, con una bella introduzione di Stefano Allovio. Intervistato da John Knight e Laura Rival, l’autore, professore al Collège de France dove ha ereditato la cattedra che fu di Claude Lévi-Strauss, dice la sua sul rapporto tra sport e gioco. Restituendoci la speranza.Perché se non altro ci aiuta a guardare altrove, come fanno gli antropologi, alla ricerca di un’idea dello sport diversa da quella che da noi muove insieme interessi miliardari e bande di ultras ansiosi di menare le mani.L’antropologo ci rivela che esiste una grande differenza tra il gioco agonistico nelle società tradizionali, dove spesso la cooperazione è importante quanto la vittoria e quel business guerreggiato che è il nostro sport.E come esempio di cooperazione, Descola cita il gioco della palla tra gli Aztechi, consistente nel far passare la sfera entro un anello di pietra. Tutti collaboravano perché la palla era il simbolo del sole, di cui era interesse generale non interrompere il corso.Come dire che quel che conta è partecipare non vincere. Come nelle partite di calcio tra gli Achuar, la popolazione ecuadoregna studiata dall’antropologo francese. Per cominciare gli indios corrono tutti dietro al pallone, portiere compreso. Oltretutto il numero dei giocatori è variabile. È possibile che una squadra ne schieri cinque e l’altra dieci. No problem. L’importante è buttarla dentro. Ma ancor più importante è che arrivi il gol del pareggio. Perché impattare il match è meglio che vincerlo.In questo senso, il caso più eclatante è quello del football giocato dai Gahuku-Gama, una società della Nuova Guinea. Se alla fine dei novanta minuti regolamentari uno dei due undici è in vantaggio si continua a giocare, anche oltre i supplementari, finché gli altri non abbiano riportato il risultato in pari. Un’apparente assurdità, che da noi metterebbe fifa alla Fifa, ma che si spiega perfettamente con la visione del mondo di quel popolo che considera lo squilibrio e la disuguaglianza un pericoloper la vita collettiva. E lo sport deve confermare e legittimare questa ideologia della parità. Esattamente come da noi conferma l’ideologia competitiva e la pratica concorrenziale che caratterizzano economia e società.E se nel nostro mondo sempre più spesso lo sport diventa guerra, in certi mondi lontani perfino la guerra diventa sport. Eclatante il caso dei Dani della provincia indonesiana di Papua. Si tratta di gruppi che vivono in uno stato costante di conflitto armato.Appena però i belligeranti entrano in contatto e viene versato il primo sangue cessano immediatamente le ostilità. E la stessa cosa succede se comincia a piovere. O se il sole tramonta dietro i monti. Si tratta di tattiche e strategie ludiche per limitare la competizione entro certe soglie oltre le quali diventerebbe distruttiva. Per i giocatori, per gli spettatori e per la società intera.Tutto il contrario dell’Occidente dove lo sport, al di là dei proclami sull’agonismo che affratella, non ha la funzione di livellare le differenze ma di crearle o, quanto meno, di legittimarle. Non a caso, ricorda Descola, è nato nelle scuole inglesi dell’Ottocento come dispositivo di creazione delle élite, di preparazione al mestiere delle armi, di interiorizzazione dei rapporti di forza.Col risultato di esaltare lo spirito di squadra, l’attitudine alla leadership, lo spirito combattivo, la complicità, il cameratismo, il lobbismo. Tutto ciò che è necessario a creare solidarietà dei dominanti contro i dominati. Come dire che ogni società si fa lo sport a sua immagine e somiglianza.