il Giornale, 27 marzo 2024
L’ultimo libo di Barbara Alberti. Un elogio
«Femministe ma fate davvero? Volete usare lo schwa? Ovvero rendere le parole neutre? Eliminare il maschile e il femminile? Ma è una cretinata, è retorica, è farsa. Potete davvero pensare di abolire il maschile e il femminile come simbolo di uguaglianza, mettendo un segnetto mesto invece del genere, dove treno diventa tren per non offendere la trena? Dài ridiamo insieme di questo nonsense che annienterebbe anche Dante Alighieri. Esempio: Nel mezzu del cammin di nostru vitu/ mi ritrovai per unu selvu oscuru/ ché lu dirittu viu era smarritu...».
Tremate, tremate, le streghe son tornate: era lo slogan più noto del movimento femminista degli anni Settanta, non di queste sessuofobiche in carriera (dalla povera mia amata Murgia, pace al femminismo suo, all’impiegato in carriera Valerio Chiara), nate da quella catastrofe antimaschile partita con il #metoo.
Ci voleva un antidoto, un nuovo manifesto, e non poteva essere un maschio a scriverlo, così ci ha pensato Barbara Alberti, penso la più grande scrittrice vivente, che già negli anni Novanta sfidò Aldo Busi: «andiamo davanti a un pubblico, tu leggi una pagina tua, io una mia, e vediamo chi vince». Busi non accettò, troppo pieno di sé.
Il pubblico televisivo la conosce come opinionista scatenata, la più arguta, la più colta, la più elegante, tanto da essersi meritata un’imitazione di Virginia Raffaele. Da anni la fermano per strada, per dirle «signora, sono sempre d’accordo con lei», ignorano con chi stanno parlando, cosa ha scritto, perché il pubblico televisivo non legge. Un suo romanzo tra i tanti che potrei citare, Delirio, un capolavoro di erotismo folle, romantico, blasfemo, sconveniente, uscito nel 1978, diventato un classico in Oscar Mondadori, e poi sparito, che mi sto impegnando per far ripubblicare a Adelphi, sarebbe la giusta consacrazione e finalmente hanno una grande scrittrice viva (perché all’Adelphi sono necrofili).
In ogni caso Tremate, tremate, le streghe son tornate è il nuovo libro di Barbara Alberti, edito da Rizzoli (pagg. 300, euro 18), e leggerlo è una boccata d’aria fresca nel gas tossico che si respira nella prigione vittimistica e sessuofobica che stanno costruendo le nuove femministe, per godere del trend del momento e aprirsi una strada nel successo garantito dal conformismo.
Vi ricordate quando Roberto Benigni dedicò il Leone d’Oro alla carriera a Nicoletta Braschi? «Apriti inferno. Le femministe, invisibili quando ammazzano le donne, saltano su a legioni. Benigni, maschilista! L’ha vilipesa! L’ha trattata come una musa! Il solito ruolo subalterno delle donne... È una scena da maligne di paese: Benigni dedica un madrigale a Nicoletta e lei è lì tutta commossa, ma la comare invidiosa le artiglia il braccio, che? Ah, sei contenta? Povera scema! Non hai capito che ti ha offeso? Ti tratta da Beatrice, ti sta denigrando!». Barbara le infilza con le loro stesse parole: «Questa per me si chiama molestia. Cancellatrici del sorriso. Acchiappacolpevoli, rabdomanti della forma. Via, basta, la lagna è amica del potere, lo è tutto il femminismo suscettibile e bigotto».
Non risparmia neppure proprio il #metoo, Barbara, le molestie a scoppio ritardato, da Asia Argento a Gwyneth Paltrow: la prima poteva andarsene, come fece Sophie Okonedo di fronte alle viscide avances di Weinstein, che la licenziò e dette il ruolo proprio alla Argento. Anche la Paltrow ci stette, col mostro, perché aveva paura distruggesse tutta la sua carriera. Ma, cito la sublime Alberti, «Weinstein non era Hitler e non era Hollywood, ma la soggezione al maschio è iscritta nella nostra mente di replicanti. Peccato per lei che non si sia concessa un momento di fierezza, che le avrebbe fruttato in energia e successo più dei favori dell’orco». Aggiungerei anche: peccato non sia diventata proprio Sophie Okonedo l’eroina del #metoo, quella che disse no all’orco, non quelle che hanno detto sì finché tornava comodo.
E per l’8 marzo? Questo falso tributo, questa falsa festa, Barbara consiglia una cosa: impariamo a dargliele, andiamo a scuola di kung fu. «Se è un aggressore di strada, non dico che si riesca a vincere un colosso, ma a farlo cadere sì, e poi si scappa – quei 30 secondi che ti salvano la vita. Se è il marito o l’amante, il vigliacco conta sul fatto che non sappiamo ridarle. Ma quando sa che se alza le mani con una botta di kung fu gli rompi i denti, magari ci va più cauto, e tu intanto urlando stani i vicini, così bravi anche loro a far finta di niente – ricordate la moglie incinta di 8 mesi uccisa a calci dal marito? Condòmini e parenti cadevano dalle nuvole. E chi se lo aspettava, un uomo tanto per bene! E gli urli e le botte e i pianti che passavano dai muri? Si tappavano le orecchie, come le nostre autorità. Niente mimose, arti marziali, ragazze».
Non è solo un libro di femminismo antifemminista, è anche un libro di ritratti, di persone straordinarie, maschi e femmine (Barbara non fa distinzioni di sesso, conta quello che fai, quello che sei), uomini e donne veramente liberi, dal giovane scrittore Edoardo Pisani a Fiamma Satta a Isabella Santacroce e tanti altri, legati a nessuna massoneria narrativa o pseudoculturale per farsi dare il solito premio. D’altra parte Barbara Alberti, l’immensa Alberti, ne è un esempio sommo. Non a caso il suo anagramma è: Libertà Barbara