La Stampa, 27 marzo 2024
Bollati, l’editore antropologo degli italiani credeva nella lettura come diritto di tutti
Giulio Bollati è stato, come scrisse di lui Ernesto Ferrero, «uno dei primi casi dei fulminei innamoramenti di Giulio Einaudi per i giovani talenti», e si dovrebbe aggiungere uno dei più felici. Entrato in casa editrice nell’autunno del 1949, quasi per caso (stava andando in Francia, Einaudi gli disse semplicemente: fermati qui, cominci domani), ne ha incarnato l’anima umanistico-scientifica ma anche artigianale e manageriale. Fu l’alter ego del “Principe”, la figura solida, rassicurante; e, di suo, uno studioso del carattere degli italiani (come dal sottotitolo del suo libro più importante, L’Italiano, che indaga la costruzione stessa della nostra identità culturale). Nacque a Parma, cent’anni fa, il 27 marzo, e la Bollati-Boringhieri, la sua ultima casa editrice, lo ricorda riproponendo due opere diverse fra loro ma che lo definiscono bene, le Memorie minime (brandelli di diario, microracconti editoriali compreso un kafkiano arresto di Italo Calvino a Chambéry, in Francia) e i saggi di L’interpretazione dell’Italia moderna.
Allievo a Parma di Attilio Bertolucci e poi a Pisa di Delio Cantimori, Giorgio Pasquali e Luigi Russo, ha trovato nell’editoria il senso e il destino delle sue passioni, tra letteratura e dimensione storica e civile. Quest’ultima è quella che ne fa un editore dallo sguardo rivolto soprattutto a ciò che sta cambiando nella società. Fin dagli Anni Sessanta guarda alle proposte di Feltrinelli o del Saggiatore di Alberto Mondadori come a una possibilità di rinnovamento, tra sperimentazione letteraria e scienze umane, ma è anche un sostenitore della razionalità d’impresa, del rigore. Intuisce che gli italiani stanno cambiando, e la loro richiesta culturale è diversa dal primo dopoguerra, lo sviluppo economico ha mischiato le carte in tavola.
Sono temi, questi, che vengono sviluppati nel suo saggio più celebre, ma che giorno per giorno Bollati applica al concreto operare. E nello stesso tempo asseconda lo spirito anarcoide e imprevedibile di Giulio Einaudi, di cui ammira l’intelligenza.
C’è una fitta aneddotica al proposito, soprattutto per mano di Ernesto Ferrero e Carlo Fruttero. Quest’ultimo, in Mutandine di chiffon, racconta l’episodio esilarante di un comunicato che doveva essere inviato all’Onu all’indomani dell’invasione sovietica dell’Ungheria, anzi la sera stessa della notizia, su ordine di Giulio Einaudi. Lui e Bollati erano a cena in collina, vennero raggiunti da una telefonata piuttosto concitata, obbedirono, misero insieme un testo, si precipitarono alle poste centrali per spedirlo in forma di telegramma, ma scoprirono, quando furono là, di non avere abbastanza denaro. Corsero allora a casa di Giulio Einaudi, lo svegliarono lanciando sassolini contro la finestra, anzi scalarono, l’uno reggendo l’altro, la finestra stessa, e finalmente l’editore comparve in vestaglia. Sporse il denaro senza dire una parola e tornò a letto. L’appello venne finalmente inoltrato, e chissà dove finì. Bollati – «che era un uomo d’onore» – non ne fece mai più parola.
Il comportamento era del resto nel suo carattere di uomo serio senza seriosità e, soprattutto, un uomo leale, che accettava la bizzarria (anche quella di andarsene a Mosca e regalare a Kruscev un tartufo, di cui il leader sovietico non sapeva proprio che cosa fare, lo prese per una strana patata) e se era il caso la utilizzava come collante per il gruppo. È stato un grande editore, sotto questo aspetto, proprio perché era uno studioso e anche un motivatore: decisivo in casa Einaudi, nei momenti di crisi, come dopo la morte di Pavese quando si trattò di serrare le fila e riorganizzarsi da capo o quando, dopo un breve passaggio al Saggiatore e alla Mondadori, vi rientrò all’epoca del commissariamento, quando l’Einaudi rischiava di fallire, fra il 1983 e il 1987, da direttore generale. Riuscì, insieme al suo vecchio gruppo, a riportare i conti in ordine senza cambiare la qualità e la linea editoriale, e infine creò le condizioni che permisero la cessione a una nuova proprietà. In quello stesso anno, a lavoro compiuto, si spostò di poche centinaia di metri ed entrò alla Boringhieri, acquistata dalla sorella Romilda, che divenne Bollati Boringhieri; e pur restando fedele alla sua tradizione scientifica, ne allargò il campo alla letteratura, alla sociologia, alla politica. Era la formula che aveva fatto grande lo Struzzo. Morì nel 1996 lasciando una casa editrice autorevole e rilanciata, entrata poi nel gruppo Gems.
Giulio Einaudi lo commemorò scrivendogli una lettera che viene pubblicata da la Repubblica, in cui gli rese un omaggio sincero: «Mentre io come al solito cercavo la disputa, tu mediavi, e ti inferocivi quando io, talvolta senza volerlo, turbavo i tuoi progetti. Ma nonostante le nostre polemiche, anzi direi proprio per esse, facemmo insieme, per decenni, un buon lavoro. Penso a te come a un amico cui io sono estremamente debitore: di moralità soprattutto, intendo moralità editoriale». È un ritratto perfetto della lunga convivenza fra i due, che trascura però il lavoro di Giulio Bollati in una casa editrice tutta sua, il secondo tempo della vita da editore intellettuale, dove riuscì a imprimere ancora una volta quella che Roberto Calasso ha chiamato in un suo libro l’impronta dell’editore: quel quasi indefinibile concentrato di calcolata passione che fa dei libri scelti e stampati i capitoli d’una lunga storia, anche personale. E di una passione politica.
In un breve scritto del maggio 1992 sul notiziario della casa editrice, Bollati ricordò che feste e saloni vanno benissimo, ma «la molla che fa crescere il tasso di lettura in un paese va cercata in un assetto meno rocambolesco delle regole della convivenza, in una crescita risanata che porti verso un senso di cittadinanza meno carente o furbesco, in vista di una società civile che sia davvero civile». Sono considerazioni non occasionali, in continuità con il suo saggio su L’invenzione dell’Italia moderna dove analizza appunto la sconfitta del pensiero illuminista in un Paese, come il nostro, incapace secondo la sua lettura di emanciparsi dall’antico, e che giunge impreparato alle sfide del moderno, con conseguenze di lunga durata. Non è una dichiarazione di facile pessimismo. È il lascito di un grande editore, che una strada ha saputo indicarla e soprattutto percorrerla. —