il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2024
Sul diritto alla felicità
Il 20 marzo, per non farci mancar nulla, si è celebrata la “giornata internazionale della Felicità”. Questa giornata fu istituita dall’Onu nel 2012. L’assemblea delle Nazioni Unite non parlava di un “diritto alla felicità”, ma di un più ragionevole “diritto alla ricerca della felicità”, peraltro assai dubbio perché, essendo la felicità uno stato d’animo, nessuno può sapere in che cosa consista, non è dato dal benessere economico, se fosse così dovremmo concludere che questa è un’epoca particolarmente infelice perché il tasso di suicidi ha raggiunto vertici sconosciuti al Medioevo (decuplicato in linea di massima) così come nel frattempo sono comparse patologie, come la nevrosi e la depressione, quasi sconosciute in passato (oggi la vita di quasi tutti noi bascula tra nevrosi e depressione), da una giornata di sole, da una buona compagnia, da rapporti sereni con la fidanzata o il fidanzato.
A chi non è capitato di essere in una situazione del genere, quasi perfetta, e di sentirsi ugualmente profondamente infelice?
Comunque sia l’edonismo straccione contemporaneo ha trasformato il “diritto alla ricerca della felicità” in un vero e proprio “diritto alla felicità”. Lo si ricava dai festeggiamenti che si sono fatti il 20 marzo al Forum di Assago.
L’organizzatore dell’evento, Walter Rolfo, che si è definito nientemeno “ingegnere della Felicità”, parla esplicitamente di un “diritto alla felicità”, lo stesso fa il redattore del Giorno, prudentemente anonimo, e così i vari invitati fra cui prevalgono illusionisti, maghi, prestigiatori. E bisogna essere davvero un illusionista o un mago o un prestigiatore o un fattucchiere o un giocoliere delle tre carte o uno stregone o un incantatore o un indovino o un chiromante o un negromante per convincere un povero illuso, appunto, che esiste un “diritto alla felicità”.
“Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità, non il suo diritto” (Cyrano).
Se si postula che esista un “diritto alla felicità” si rende, ipso facto, l’uomo infelice. La sapienza antica era invece consapevole che la vita è innanzitutto fatica e dolore, per cui tutto ciò che viene in più è grasso che cola e ce lo si può godere. Diritti di questo genere sono i diritti impossibili di un Illuminismo decaduto e decadente così come il “diritto alla salute” di cui parla il nostro Codice, e non è davvero un caso che il ministero della Sanità sia stato trasformato dall’attuale governo in ministero della Salute.
Il diritto alla sanità, cioè il diritto a essere curati in modo adeguato e possibilmente gratuito (cosa che non è da noi ma è, per esempio, a Cuba e in altri Paesi comunisti), è davvero un diritto da prendere sul serio, il diritto alla salute è un’utopia. La salute c’è quando c’è, ma nessuno, fosse anche Domineddio, può garantirla.