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 2024  marzo 26 Martedì calendario

La riscossa della destra

Nel secondo dopoguerra i neofascisti italiani, quantomeno nella parte non dichiaratamente eversiva, erano caratterizzati dalla «ferma determinazione a non ripetere gli errori passati, a non ricadere nella contaminazione con lo spirito borghese, a non ridursi di nuovo a strumento delle classi dirigenti contro l’avanzata della sinistra». Così Marco Tarchi (che, tra il 1968 e il 1981, partecipò alle vicende di quel «microcosmo» dando vita a riviste – «La Voce della fogna», «Diorama Letterario» – e applicandosi a studi su Julius Evola e Léon Degrelle) intervistato da Antonio Carioti in Le tre età della Fiamma. La destra in Italia da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni, una rielaborazione radicale e assai documentata di un libro che ora è in procinto di essere pubblicato da Solferino. Carioti prende le mosse dal 26 dicembre 1946 data di fondazione del Movimento sociale italiano all’insegna di un motto «non rinnegare e non restaurare» che è rimasto per decenni nel Dna del partito. Il Msi, sostiene Tarchi, «nasce con il complesso dell’orfano», nella consapevolezza «di essere il frutto di una sconfitta e di una tragedia», da cui scaturiva «l’imperativo di resistere ad ogni costo». O, per meglio dire, di offrire una via per la sopravvivenza a coloro che non intendevano, appunto, «rinnegare» il proprio passato. Né quello remoto (fino al 25 luglio del 1943), né quello recente (fino al 25 aprile del 1945).
La prima leva è formata dai giovani – descritti nel libro autobiografico di Carlo Mazzantini A cercar la bella morte (Mondadori) – che avevano aderito alla Repubblica sociale per mantener fede a ciò in cui avevano creduto: dopo aver perso la figura del padre (Mussolini) si erano ribellati al «tradimento» dell’8 settembre (l’armistizio) ed erano animati dal desiderio di riscattare quella che ai loro occhi appariva come una «vergogna». Poi il viaggio è lungo e va da Pino Romualdi (personaggio importantissimo), Giorgio Almirante, Pino Rauti, Arturo Michelini, Beppe Niccolai (altra personalità che merita una menzione particolare) a Gianfranco Fini e Giuseppe Tatarella per concludersi con Giorgia Meloni. Più, ovviamente, moltissimi altri. Tenuti insieme, pur tra mille evoluzioni, da un filo rosso il cui emblema è nella fiamma che compare ancora oggi nel simbolo del partito (laddove la falce e martello e lo scudo crociato sono stati significativamente cancellati dagli emblemi dei principali eredi del Pci e della Dc).
Ma torniamo alla seconda metà degli anni Quaranta. In Italia, fa osservare Tarchi, non c’era stato un tentativo serio di organizzare una qualche guerriglia contro gli alleati come era avvenuto nell’immediato dopoguerra in Germania con i cosiddetti «Lupi mannari» (i Wehrwolf). La guerra civile «aveva lasciato gli sconfitti in una condizione talmente disperata da rendere per loro impraticabile l’ipotesi di portare un attacco diretto al nuovo Stato». In realtà qualcuno tentò l’impresa, ma furono gruppi a tal punto esigui che vennero costretti in poco tempo a desistere. Qualcun altro – come ha ben documentato Giuseppe Parlato in Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia: 1943-1948 (il Mulino) – provò a prendere contatto con i servizi segreti statunitensi per farsi rimettere in gioco in funzione anticomunista. Anche qui, però, senza successo.
Ad occupare lo spazio del «rifiuto del mito antifascista» entrò in campo il Fronte dell’Uomo Qualunque guidato da Guglielmo Giannini che ottenne un discreto successo nell’Italia centro-meridionale. E, nei mesi che precedettero le elezioni del 18 aprile del 1948, sia pure solo per un attimo, riuscì ad inserirsi nel grande gioco politico nazionale. Erano, quelli di Giannini, elettori anticomunisti che – come ha messo bene in evidenza Roberto Chiarini in Destra italiana. Dall’Unità d’Italia a Alleanza nazionale (Marsilio) – non si riconoscevano nella Democrazia cristiana e mantenevano un legame di «immedesimazione psicologica» con i valori del fascismo. Come, almeno in parte, gli elettori dei partiti monarchici di Alfredo Covelli e Achille Lauro.
Si avverte, sempre nella seconda metà degli anni Quaranta, un tentativo da parte di Palmiro Togliatti di agevolare un passaggio dalle file del «fascismo di sinistra» a quelle comuniste. Se ne è occupato Paolo Buchignani in Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-53 (Mondadori) approfondendo ruolo e posizioni di Stanis Ruinas, nonché della sua rivista «Il Pensiero Nazionale». Ma a Tarchi sembra che la «portata del fenomeno, su cui non esistono dati certi, sia stata esagerata».
Resta in campo una domanda. Cosa ha significato, in particolare per chi si è posto all’interno di una «dimensione postfascista», essere fascisti nel secondo dopoguerra? Sulla scia di una risposta di Pietrangelo Buttafuoco a Norberto Bobbio («è stata la prospettiva più inedita da dove ho potuto fare altro, diventare altro, per leggere e studiare in orizzonti ad altri inaccessibili») Luciano Lanna e Filippo Rossi hanno dedicato a questo tema un libro, Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra (Vallecchi). Dove parlano di una «prospettiva inedita, comunque non allineata, da cui poter sperimentare anche ipotesi di provocazione intellettuale, opzioni stravaganti e non conformiste di nuove sintesi, strategie per poter pensare altro, creare altro, sognare altro rispetto all’ordinaria amministrazione della politica e della cultura». Sia pure «con un eventuale carico di equivoci e fraintendimenti, scissioni tra la sfera del vissuto personale e quanto percepito dall’opinione pubblica, tra le tante velleità idealistiche e le altrettante miserie – spesso tragiche – della cronaca».
Lanna e Rossi citano le suggestioni esoteriche di Massimo Scaligero e Julius Evola (assieme ad altri autori tramite loro introdotti nel panorama culturale italiano, da Rudolf Steiner a René Guénon e Georges Ivanovitch Gurdjieff) sino alla riscoperta del cattolicesimo attraverso il tradizionalismo, dalla passione per la fantascienza e la lettura fantasy, ai primi cabaret di satira anticonformista, dalle velleità e i tradimenti sessantottini ai fermenti giovanili della destra settantasettina, dalla via italiana alla rivoluzione sessuale alla passione per il cinema poliziesco anni Settanta. E ancora: dalla scoperta di Tolkien all’innamoramento per la cultura e la musica celtica, dalla memoria dei «ragazzi di Salò al superamento dell’occidentalismo, a cominciare dalla pregiudiziale verso popoli e cultura del Terzo e Quarto mondo».
Ma questo fu vero solo a partire dalla fine degli anni Sessanta. Prima le cose furono diverse. Secondo Paolo Macry – in La destra italiana. Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni (Laterza) – il Msi diventava fin dagli anni iniziali il cavallo di Troia grazie al quale le sinistre poterono costruire la propria rispettabilità politica e infine entrare nell’area di governo. La presenza di un partito che si dichiarava erede del regime mussoliniano avrebbe permesso di «agitare per decenni la retorica di un incombente pericolo fascista». L’antifascismo si rivelò, sempre secondo Macry, «argomento molto più efficace dell’anticomunismo». Fu, per chi se ne poteva «fregiare», un «passepartout legittimante». Mentre l’anticomunismo divenne «un’arma a doppio taglio essendo equiparato – dalle sinistre – al fascismo». Per quanto possa apparire paradossale, l’anticomunismo sarebbe tornato buono – se non altro come suggestione – soltanto dopo la caduta dei regimi comunisti, dal 1994, all’epoca di Silvio Berlusconi. Considerazioni per certi versi simili a quelle contenute nel libro di Ernesto Galli della Loggia, a cura di Lucio Caracciolo, Intervista sulla destra (Laterza).
Ma torniamo agli anni iniziali. Nel 1955 i neofascisti contribuirono all’elezione di Giovanni Gronchi al Quirinale. Poi nel 1957 sostennero il governo di Adone Zoli, nel 1959 il secondo governo Segni. Nel frattempo (1958) il Msi si limita a sfruttare l’occasione offertagli da una spaccatura interna alla Dc siciliana: cade la giunta regionale presieduta dal fanfaniano Giuseppe La Loggia e un gruppo dissidente convince un avversario locale dell’allora Presidente del Consiglio (Amintore Fanfani) a varare una coalizione che si regge sul sostegno di comunisti, socialisti, monarchici e missini. Ma, sostiene Tarchi, «non si tratta di un laboratorio politico con l’ambizione di produrre future alleanze trasversali, bensì di un episodio di una lotta di potere in seno al partito cattolico, e l’espulsione di Milazzo dalla Dc gli taglia le gambe prima che possa produrre conseguenze di un qualche rilievo».
Di qui si giunge al governo guidato da Fernando Tambroni (1960) sostenuto dai voti espliciti del Msi di Arturo Michelini. Governo che cade dopo una serie di manifestazioni antifasciste e la ribellione della sinistra democristiana. C’è stato, ricorda Carioti, chi ha visto in quella breve esperienza governativa un’«opportunità perduta». Secondo questa interpretazione, osserva sempre Carioti, «il Msi di fronte alla prospettiva di inserirsi nell’area di governo, sarebbe stato pronto a dichiarare la sua piena adesione al sistema democratico». Talché i moti di piazza che impedirono lo svolgimento del Congresso missino in programma a Genova «avrebbero ritardato la sua evoluzione ideologica». Tarchi non è d’accordo con questa ricostruzione. Lo stesso Romualdi, «unico testimone e partecipante» di questa vicenda che ne abbia lasciato un’attendibile memoria scritta, mette in rilievo Tarchi, avanza «seri dubbi sul fatto che una svolta del genere potesse essere già matura in quel periodo».
Il partito di Michelini, però, resta in gioco. Dopo appena due anni – nonostante la Dc di Amintore Fanfani abbia stretto un patto con il Partito socialista di Pietro Nenni che porterà nel dicembre 1963 alla nascita del primo governo di centrosinistra – giunge per il Msi il momento di «far valere i propri voti» una seconda volta come già era accaduto con Gronchi, Zoli e Segni. Nel 1962, al momento dell’elezione del presidente della Repubblica, dopo la quarta votazione, missini e monarchici fanno confluire i propri suffragi su Antonio Segni riuscendo a «trasmettere l’impressione che senza ricorrere ai loro voti non si possa affermare nel Paese una tendenza conservatrice». Ma si tratta solo di una «impressione».
Destinata, dopo divisioni interne registratesi ai tempi del Sessantotto, a riproporsi all’inizio degli anni Settanta. In tre occasioni: i moti di Reggio Calabria, la buona affermazione elettorale del partito nelle elezioni politiche del 1972 e ancora una volta con il voto determinante per l’elezione di un presidente della Repubblica: Giovanni Leone. Un errore, secondo Tarchi. Grave. All’epoca – impallinato Amintore Fanfani – si parlava insistentemente della volontà di una parte della Dc di mandare al Quirinale Aldo Moro che sarebbe stato sostenuto dall’intera sinistra. Se quella ipotesi fosse andata in porto, afferma Tarchi, «per Almirante si sarebbe aperto uno spazio molto ampio come rappresentante pressoché unico delle istanze – e dei timori – dei settori conservatori del Paese». Ma in Almirante prevalse la preoccupazione che una presidenza Moro avrebbe portato all’ingresso del Pci nel governo, a cui temeva potesse seguire «la messa fuorilegge del Msi, allora chiesta a gran voce dall’ultrasinistra gruppuscolare e dal Psiup». Tra l’altro era diventato lui stesso, Almirante, bersaglio degli strali provenienti dall’ultrasinistra.
Il secondo errore di Almirante fu quello di partecipare alla campagna perdente contro il divorzio (referendum del 1974) in compagnia di Fanfani che oltretutto non gli riconobbe neppure la dignità di compagno di strada. Da quel momento, Almirante indicò la via più «politica» della Destra nazionale che avrebbe spalancato le porte a Fini, Tatarella (il vero teorico di quella nuova fase politica) e infine a Giorgia Meloni. Con la svolta di Fiuggi (1995), secondo Carioti, «alla religione politica del neofascismo subentra una visione più disincantata, concentrata sui problemi di governo di una società secolarizzata». Con Meloni invece, qui la notazione è di Tarchi, «non sono mancati i richiami alla storia missina e postmissina» anche se «perlopiù confinati al piano sentimentale e psicologico, senza far cenno a precisi connotati ideologici». Quasi a voler dare al proprio partito, nato appena dieci anni prima del successo elettorale che l’ha portata al governo (2022), un connotato identitario che ne rendesse più salde le radici.