Corriere della Sera, 26 marzo 2024
Intervista ad Antonio Albanese
«Oueh!» «Oueh!» «Oueh!» Se vi capita di incontrare Antonio Albanese di questi tempi, mentre gira come un matto per presentare il suo nuovo film in uscita giovedì, non stupitevi se vi saluta con questo indecifrabile e affettuoso grugnito. «Cosa vuol dire?». «Boh... Niente... Oueh!». Intraducibile. Ma un po’ alla volta, scena dopo scena, vedendo come la ruvidezza marsicana in questa storia ironica e struggente, leggera e profonda di una scuola di montagna salvata dai suoi abitanti si stempera in una rara dolcezza, capirete. Come ne Un mondo a parte capisce lui, il maestro lombardo deluso dal mestiere e finito dalle borgate romane sui monti abruzzesi fino a innamorarsene perdutamente. «La montagna fa». La montagna cambia.
Quale fu il tuo primo maestro?
«Non fu un maestro, ma una maestra. Una maestra a volte disperata perché ero un bambino abbastanza vivace. Sempre stato vivace, sempre avuto una bella energia. Abitando tra il lago e il bosco, poi... Ma una cosa la ricordo bene: anche lei, come tutti i maestri, aveva una credibilità oggi troppo spesso perduta. Non capitava, allora, che il papà di un bambino pestasse a sangue un insegnante, come ho letto che è successo da qualche parte l’altro giorno. Stiamo incontrando un sacco di maestri, in questi giorni. Sono stupiti che si parli di loro, finalmente. E confessano spesso di essere intimiditi dall’aria che tira».
Il vostro film comincia con un bambino della periferia romana che va a riprendersi il cellulare requisito: «Sennò chiamo papà e te faccio ammazza’ de bbotte».
«È così. Nelle periferie di certe grandi città, ma non solo, tira un’aria così».
Sei consapevole di rappresentare un panda?
«In che senso?»
Gli insegnanti maschi ormai sono uno su cinque. Alle elementari quattro su cento. Alle materne uno su cento. Sono in estinzione. Più rari del panda.
«Sarà perché gli stipendi sono bassi e i maschi pensano di poter fare altre cose?».
Ho controllato: è sempre andata così. Nel 1880 un maestro prendeva 450 lire l’anno e un chilo di carne costava una lira e mezzo... Stipendi da fame.
«Assurdo. Ho lavorato in fabbrica otto anni, prima di fare l’attore. Ma avere a che fare coi bambini è uno dei mestieri più pesanti del mondo. Un giorno ho incontrato ventidue scolari. Dopo un’ora ero stremato».
Il maestro Manzi, quello che si inventò in tivù «non è mai troppo tardi», raccontava che della sua prima classe ne aveva ottantaquattro.
«Non so come facesse... A me ventidue sembravano un’orda».
In cattedra, come confidò al biografo, fece fatica anche Mussolini. Mandato come maestro a Tolmezzo nel 1906, con una classe «di quaranta ragazzetti vivaci, taluni dei quali anche incorreggibili e pericolosi monelli» confessò: «Feci tutto il possibile per tirare innanzi la scuola ma con scarso risultato poiché non ero stato capace di risolvere il problema disciplinare».
«Non ci posso credere! Eppure i genitori stavano dalla parte dei maestri dei professori sicuramente più di adesso. Mi ci sono immedesimato, in quel lavoro. E ho capito che è un lavoro meraviglioso ma pesantissimo. E non si fa solo in classe. Devi prepararti, studiare, farti venire delle idee... Conoscere i bambini uno ad uno... Conoscere le famiglie, i loro problemi... Il tutto per uno stipendio modesto che spesso obbliga i maestri ad andare a vivere dall’altra parte d’Italia... E poi a fare chilometri e chilometri da casa a scuola. Tutti i giorni. Col sole, con la pioggia, con la nebbia, con la neve come nel nostro film. Una cosa ho capito: ci vuole un’immensa passione per farlo. Tanto più in una società che i maestri li capisce sempre meno».
Sai quante sono ancora le pluriclassi, con bambini di diverse età, nei paesini più sperduti d’Italia come quello dove avete girato voi in Abruzzo? Sono 1325...
«Eroiche».
Sparse soprattutto in Campania, Piemonte, Lombardia, Calabria e Sicilia. Per il 78% in collina o in montagna.
«Come il paese dove io e Virginia cerchiamo di salvare la scuola rimasta con troppo pochi bambini».
Come avete scelto Rupe, nel Parco Nazionale d’Abruzzo?
«Rupe non esiste. È inventato. Ma il borgo di Opi dove abbiamo girato c’è davvero. Bellissimo. E così Pescasseroli. Riccardo Milani, il regista con cui avevo già lavorato in Come un gatto in tangenziale e altri quattro film, l’ha scelto perché conosceva il tema e perché frequenta da anni la zona. Era rimasto colpito dal disagio di quei maestri che devono affrontare 50-60 chilometri, in montagna, per raggiungere la loro classe. E l’importanza che una scuola viva sennò muore il paese».
Avete toccato un tasto sensibilissimo. Sai quante sono le scuole che hanno chiuso negli anni?
«Lo immagino: una marea. Con Cento domeniche volevo parlare dell’ingordigia delle banche che ha rovinato milioni di persone. Chissà che con questo non si parli un po’ di più della scuola. Perché è un disastro una scuola che chiude. Muore un paese».
Ci sono dei maestri veri, che recitano nel vostro film?
«No. Di attori veri e propri però siamo solo cinque. Tutti gli altri sono persone che vivono lì. Attori straordinari che nella vita fanno i falegnami, i fornai, i boscaioli... Gente vera. Formidabile. Che certi giorni ha lavorato dodici gradi sotto zero. Uno degli episodi che raccontiamo è vita vera».
Quale?
«Quello del ragazzo che a quattordici anni invece che chiedere un motorino vuole come regalo una pecora. Adesso è lì, che coltiva lenticchie, le più buone del mondo. Un esempio fantastico di attaccamento al paese, alla natura, a questo Abruzzo meraviglioso».
Ma dopo aver fatto l’industrialotto lumbard e lo scafato politicante calabrese ti sei imparato l’abruzzese?
«Impossibile. È un miscuglio di tante lingue diverse. Milani ci teneva: dovevano tutti parlare quel dialetto lì. Questione di credibilità. Io appena ho imparato a capirlo. Virginia invece, cocciuta, si è fatta aiutare da due coach, battuta dopo battuta. Una perfezionista. Bravissima. Doveva essere credibile».
A un certo punto nel film c’è un bambino, Khaled...
«E si presenta dicendo: “Sono Khaled, marsicano”! Irresistibile. È marsicano davvero. Figlio di immigrati arrivati trent’anni fa che coltivano le lenticchie. Il mondo è cambiato. La scuola con loro è cambiata».
Stai dicendo che tu non avresti piantato una grana sulla giornata di vacanza per il Ramadan subito recuperata?
«Ma è ovvio. È stato solo segnale di rispetto. Cosa c’entra la sottomissione?»
Quindi non sei d’accordo con Valditara?
«No. In questo caso no».
Il che non vuol dire togliere i crocifissi dalle pareti.
«Assolutamente. I crocifissi alle pareti devono restare perché quella è la nostra storia. È la nostra cultura. Ma questo non vuol dire rifiutare a priori qualsiasi cosa della cultura altrui».
Dicono i numeri ministeriali che fra 10 anni gli studenti italiani scenderanno dai 7,4 milioni del 2021 nell’anno scolastico 2033-34 a poco più di 6 milioni.
«Non sapevo che numeri fossero così drammatici. Ma non mi meraviglia».
Scrive Tuttoscuola, citando proprio Valditara, che in un anno abbiamo perso la popolazione scolastica delle province di Firenze e Grosseto, in due anni quelle di Bari e Brindisi, in tre anni quasi quella dell’intera Calabria e dell’Abruzzo, in dieci quella della Campania...
«Sono numeri che gelano il sangue. Ma anche senza conoscere i dati statistici basta girare per le montagne e vedi lo spopolamento. Vedere dei bambini dà una gioia immensa proprio perché sono pochi in mezzo a tanti vecchi. Non hai idea della gioia a girare con loro, i bambini. È un dolore vedere che gli italiani fanno sempre meno figli».
E magari portano il cagnolino in giro col passeggino...
«Per carità... Sono d’accordo col Papa. Anche se, capiamoci, questo paese non aiuta i genitori a fare figli. Tanti discorsi ma poi...»
L ’idea di «adottare» dei bambini stranieri per salvare la scuola ricorda un po’ il maestro che nel Cuore di Edmondo De Amicis presenta ai suoi scolari piemontesi il ragazzino che viene dalla Calabria: «Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di esser lontano dalla città dove è nato»...
«È cambiato tutto, da allora. È questa integrazione con i bambini profughi dell’Ucraina e i figli dei marocchini che salva la “nostra” scuola. Non capirlo è insensato».
Ti è pesato, tanti anni fa, lasciar la scuola a quattordici anni per andare in fabbrica?
«La cultura era quella, allora. Amen. Certo, a ripensarci oggi... Quando mio figlio mi ha detto che voleva fare il liceo classico sai cosa ho fatto?»
Cosa?
«Ho stappato una bottiglia».