la Repubblica, 26 marzo 2024
Chi è Sanaullah
Quando Sanaullah Ghafari, nome di battaglia Shahab al Muhajir, ha assunto la guida dello Stato Islamico-Khorasan era poco noto. C’erano incertezze sulle sue origini, perfino sulla sua vera identità. Era l’estate del 2020. Non ha impiegato tanto a farsi conoscere a colpi di attentati, diventando un simbolo. Sempre a tempo, perché i leader jihadisti passano, mentre resta l’idea.
Gli storici dell’estremismo spiegano che Ghafari, nato nel 1994, è cresciuto a Kabul, dove ha studiato ingegneria, ma la sua vita ha preso una strada diversa ed è diventato membro di un apparato di sicurezza, lavoro che in seguito ha innescato sospetti da parte dei talebani. Facile presentarlo come «un agente» del governo repubblicano, un provocatore. In realtà queste sovrapposizioni non sono rare, l’attuale capo di al Qaeda, l’egiziano Seif al Adel, ha militato in un corpo scelto e così altri seguaci della guerra santa.
Ghafari, prima ancora di prendere le redini, ha avuto rapporti con diverse frange dell’integralismo dello scacchiere. Parliamo di realtà ristrette nelle stesse aree, magari con gli stessi canali di approvvigionamento. Sono relazioni fluide, pragmatiche, sorgono e spariscono a seconda dei momenti. È in questo modo che il «soldato Sanaullah» avrebbe condiviso momenti con il famigerato clan Haqqani, l’ala talebana più radicale, basata nella regione di Kandahar, abile nel costruire contatti con chiunque gli possa portare dei ricavi.
La rete
Il leader ha sfruttato i suoi contatti con le frange più radicali dell’integralismo
I talebani, però, sono diventati l’avversario più vicino per «Khorasan», dove sono affluiti molti dissidenti. E una volta investito del titolo di «emiro» Ghafari ha accentuato la guerra con attacchi, attentati, omicidi mirati e proselitismo intenso. Per allargare i ranghi e presentare un programma alternativo agli scontenti tra i mullah, un progetto con in mente incursioni molto più lontane. La propaganda interna ha definito il suo numero uno «un leone», sottolineando la capacità nelle attività all’interno delle città. E l’idea di portare la guerra nei centri abitati, prendendo di mira ambasciate, alberghi, luoghi istituzionali, si è rivelata efficace anche se ha provocato una reazione. Lo Stato Islamico ha visto morire molti dei suoi «ufficiali», ha dovuto tenere duro ma alla fine ha superato l’onda preparandosi, sotto la mano di Ghafari, all’offensiva fuori dai confini.
All’inizio dell’aprile del 2023 il leader ha diffuso un audio per onorare il «martirio» di alcuni dirigenti ribadendo la volontà di andare avanti. Infatti, secondo indiscrezioni trapelate da indagini, il Khorasan avrebbe pianificato la nuova sfida a metà dello scorso anno con alcune mosse. Arruolamento e reclutamento di mujaheddin nelle ex repubbliche sovietiche, in particolare il Tagikistan. Infiltrazione di complici in Europa. Creazione di appoggi in Turchia. Invio di denaro attraverso corrieri e cambiavalute. Comunicazioni con piattaforme sul web. Schieramento di facilitatori in Stati vicini ai target, uomini che danno ordini o semplicemente «consigliano» lasciando poi autonomia ai seguaci su come fare.
L’apparato Khorasan – così come altri – si è rivelato letale, è cresciuta l’immagine di Ghafari come arcinemico, posizione «consacrata» dalla taglia di 10 milioni offerta dagli Stati Uniti e dalla caccia dei suoi avversari. Nell’estate del 2023 lo avevano dato per ucciso nel Kunar, i talebani invece sono convinti che sia sempre al comando, forse nascosto in territorio pachistano oppure nel turbolento Baluchistan. Un report Onu uscito a gennaio ha confermato la sostanza di queste analisi: è «l’emiro» a dirigere la danza di morte di un network dalle ambizioni infinite.