la Repubblica, 26 marzo 2024
Nella cattedrale degli italiani di Montréal c’è un affresco del 1934 con il duce e i gerarchi in trionfo. I tentativi di apporre una targa per prenderne le distanze sono falliti: uno storico spiega perché
Notre Dame de la Défense è una delle chiese della comunità italiana di Montréal, in Québec. Una bella costruzione ariosa, decorata all’interno con una teoria di santi e figure tra cui spicca, a cavallo, Benito Mussolini circondato dai suoi gerarchi. Da novant’anni questo duce sormontato dalla Madonna ascolta le preghiere in italiano dei fedeli, mentre attorno a lui la città è cresciuta divenendo uno dei maggiori centri economici del Nordamerica. Un luogo dalla doppia anima, francese e anglofona, in cui per molto tempo gli italiani immigrati sono stati una sorta di “terzo incomodo”.Decorata nel 1934, la chiesa doveva rappresentare l’orgoglio patrio degli italiani: erano i tempi della normalizzazione tra Stato e Chiesa coi Patti Lateranensi e di Italo Balbo trasvolatore, il fascismo italiano veniva studiato come possibile terza via tra capitalismo e comunismo e, complici le pesanti ingerenze del ministero degli Esteri fascista, Mussolini divenne per molti italiani del Québec uno dei simboli di un’Italia d’oltremare che cercava dignità e riscatto.Il duce a cavallo in chiesa, insieme alle linee razionaliste decorate di fasci littori della Casa d’Italia, sono stati per lungo tempo l’àncora simbolica di una comunità che ha dovuto resistere al razzismo, lottando contro gli stereotipi (non sempre infondati) sulla delinquenza organizzata e riuscendo a ritagliarsi un ruolo nel mosaico culturale francocanadese. Anche dopo la guerra persa, durante la quale molti italiani in Canada furono internati in campi di prigionia come sospetti fascisti, la presenza del duce in un luogo di culto non sollevò clamore.La composizione della comunità è cambiata: i tempi dell’italiano “migrante brigante” sono lontani e oggi la maggior parte di chi arriva dall’Italia appartiene al mondo dell’emigrazione qualificata e cosmopolita, che spesso non sente la necessità di rinchiudersi nella propria comunità.In questo contesto la memoria del duce cavallerizzo ha cominciato a risultare stretta, per qualcuno imbarazzante. Pur lontano dai clamori della cancel culture di altre latitudini, anche a Montréal ci si è interrogati sull’ingombrante presenza in chiesa di uno dei dittatori più sanguinari nel Novecento. Ma chi ha chiesto una risignificazione dell’affresco di Mussolini si è scontrato con forti e inaspettate resistenze.Luca Sollai, storico e ricercatore al Centro di studi e di ricerche internazionali dell’Università di Montreal (Cérium), ha fatto parte del comitato che qualche anno fa avanzò alcune possibili soluzioni per contestualizzare l’affresco. Ancora stupito Sollai racconta che l’iniziativa partiva dalla semplice necessità di ricomporre la realtà storica con la propaganda fascista: nessun furore iconoclastico, ma proposte come l’apposizione di una targa esplicativa cheinquadrasse storicamente l’opera. Ma senza risultato. Nonostante il comitato fosse forte di centinaia di firme a sostegno della risemantizzazione dell’opera, fu permesso solo di modificare alcuni paragrafi della guida che illustra la chiesa. Il duce rimane tuttora trionfante sul suo cavallo, senza contraddittorio.Se per le nuove generazioni che oggi visitano la chiesa l’immagine del dittatore scivola nel grottesco, evidentemente per una parte della comunità rappresenta ancora un simbolo di quello che in tempi difficili sembrava un collegamento con la madrepatria valido quanto altri.L’Italia che una parte degli italiani del Québec vuole difendere anche da una semplice targa non esiste più, ma il suo ricordo sembra ancora fonte di una divisione che ha a che fare molto più con le emozioni che con la storia. Negli anni Trenta e Quaranta, proprio a causa della pervasività della propaganda mussoliniana, per molti canadesi “fascista” e “italiano” furono la stessa cosa, e tali divennero per molti emigrati che non avevano altro modo per essere riconosciuti.Con un effetto per certi versi simile a quello a cui si è assistito nei tragici fatti del confine orientale italiano, questa identità in parte imposta è rimasta inestricabilmente legata al modo in cui la comunità italocanadese si è vista e raccontata. «Certo», si può sentir dire ancor oggi tra i mosaici della Casa d’Italia di Montréal, «il fascismo fu una brutta cosa, ma mica eravamo nazisti. E poi Balbo insegnò agli americani a volare…».Si può arrivare a difendere una dittatura pur di non perdere sé stessi.Oggi, mentre si assiste da parte di molti esponenti del governo italiano a un ritorno nell’agone della retorica pubblica di parole come Nazione, Patria e Onore, la lezione della comunità italiana di Montréal sembra suonare come un monito amaro: vi sono retoriche la cui potenza scavalca il semplice intento propagandistico, andando a impattare su sentimenti profondi e incidendo ferite nel tessuto connettivo di una comunità.Queste parole, utilizzate con leggerezza, hanno sulle spalle ottant’anni di storia che ne ha mutato il significato: sarebbe bene ricordare che non è possibile disgiungere oggi il concetto di nazione dalla memoria dei danni che il nazionalismo ha fatto, né la brutale strumentalizzazione che il fascismo ha fatto di questa parola, pena condannare un’intera visione dell’essere italiani al confronto perenne con un passato di violenza.L’interessante esempio del (non) dibattito interno alla comunità italiana di Montreal sembra suggerire quanto sia necessario una volta di più interrogarsi sulle responsabilità collettive attorno alla memoria di un passato comune per comprendere davvero il modo in cui una società sta insieme. Perché le parole, una volta di più, sono importanti.