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 2024  marzo 26 Martedì calendario

In volo su Gaza

Il sole di mezzogiorno proietta un’ombra d’aereo sul poco che è rimasto. L’ombra solca le macerie, sale su palazzi che non sono più palazzi, taglia strade che non sono più strade, calpesta mozziconi di case, avanza su crateri urbani. L’aria è tersa e permette una prospettiva inedita della distruzione. Da quassù, a seicento metri di altitudine, si vede tutto. Il passaggio dell’ombra sulle spoglie di Gaza, rettilineo e impassibile, ha un che di osceno, di insostenibile. «Cinque minuti!», grida il capo missione, un 34 enne di Amman che fa parte delle forze speciali giordane. Ha l’altimetro legato al polso e il compito più arduo. La zona di lancio è a soli cinque minuti di volo, il portellone è già aperto.
Andiamo a gettare il cibo agli affamati, di questo si tratta. Lanceremo col paracadute tonno, riso, farina fortificata con acido folico, carne in scatola e latte in polvere. Il punto di atterraggio sarà una partita a dadi col vento: dipende tutto dalle correnti, una volta uno dei carichi è atterrato in Israele. Due milioni di mani protese in aria aspettano di ricevere gli aiuti che non arrivano a sufficienza via terra, perché i tir che possono entrare nella Striscia sono pochi rispetto al fabbisogno di un popolo intero sull’orlo della carestia.
I camion rimangono bloccati per settimane alla frontiera di Rafah, sottoposti al vaglio dell’esercito israeliano che teme l’ingresso di intrusi e materiale dual use, cioè roba civile e inoffensiva che nelle mani di Hamas potrebbe trasformarsi in qualcosa di pericoloso. Secondo molti, la fame e la sete fanno parte di una precisa strategia di Netanyahu per costringere i miliziani di Sinwar alla resa.
Il C-130 Hercules della Royal Jordanian Air Force, su cuiRepubblica si è imbarcata, ha appena superato il porto di Gaza City e l’ospedale di al Shifa. Laggiù, in quartieri sbriciolati, è ripresa la caccia a chi ha progettato e attuato il massacro del 7 ottobre. Si calcola che nella regione di Gaza City sopravvivano 300 mila palestinesi. Il pilota punta a Sud, verso Rafah, ultimo angolo non occupato della Striscia dove si sono rifugiati un milione e mezzo di sfollati in condizioni igienico-sanitarie drammatiche. Nonostante ciò, il premier israeliano sta per impartire ai suoi soldati l’ordine di entrare.
Guardare Gaza dall’alto, sfregiata e scheletrica dopo cinque mesi di conflitto, e chiedersi cosa ne sarà poi, cosa farà questa gente quando Sinwar sarà catturato e gli israeliani se ne saranno andati. Mahmud Darwish, il poeta palestinese che nel 1988 compose la dichiarazione diindipendenza proclamata da Arafat, avrebbe avuto di certo una risposta sensata da dare. Di Gaza scriveva: «Niente la distoglie. I nemici possono avere la meglio su Gaza, possono tagliarle tutti gli alberi, possono spezzarle le ossa, possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue, ma lei: non ripeterà le bugie. Non dirà sì agli invasori, continuerà a farsi esplodere».
Su un terreno sbancato nei pressi dell’ospedale le ruspe dell’Israeli defence forces (Idf) hanno disegnato coi cingoli la Stella di David. L’ombra ci passa sopra, indifferente. «Tre minuti!», urla quello delle forze speciali, che adesso si sta legando una corda attorno alla vita. La corda è agganciata alla fusoliera: a due metri da un portellone spalancato sul vuoto, è quanto di più simile a una polizza di assicurazione. Il decollo è avvenuto dalla base King Abdullah II, nel deserto vicino alla città di Zarqa. A distanza di cinque minuti l’uno dall’altro, sono partiti cinque velivoli carichi di aiuti. Il C-130 giordano ha attraversato lo spazio aereo israeliano verso ovest poi, una volta sopra il mare, ha virato e ha puntato su Gaza City. Di lì in avanti ha raddrizzato la rotta e ora sta seguendo la linea della costa.
I militari addetti al carico hanno indossato gli zaini paracadute, perché non si sa mai. Su dei cuscinetti scorrevoli sono sistemati sei pallet dal peso di una tonnellata ciascuno. Sono cubi di cartone, avvolti in involucri di polietilene e tenuti insieme da nastri. A giudicare da ciò che si legge da squarci nell’imballaggio, contengono soprattutto scatolette di tonno marca Al Sayad, 160 grammi l’una. Il cibo proviene da associazioni umanitarie come la Jordan Hashemite Charity Organization, che raccoglie aiuti da diversi Paesi. A volte lanciano pasti precotti, come il Mansaf, il piatto tipico palestinese: agnello, formaggio e riso.
Sopra ogni cubo è fissato il fagotto del paracadute, a sua volta collegato a un cavo d’acciaio che corre lungo la fusoliera. «Si aprirà in automatico tirato dal cavo», spiega Muath, un aviere con gli occhi azzurri, le cuffie anti-rumore e qualche dente in meno. Che aggiunge: «I palestinesi sono nostri fratelli...». Di solito va così. Ma a inizio marzo i paracaduti di un carico lanciato non si sa da chi non si sono aperti correttamente e cinque palestinesi che guardavano il cielo sono morti schiacciati. Erano al campo profughi di Al Shati. «Un minuto!», urla il capo.
Il pilota ha spinto giù la cloche, il muso dell’Hercules si è abbassato e a tutti lo stomaco è salito nelle orecchie. La velocità è ridotta a poco più di 200 chilometri orari, per permettere l’espulsione in sicurezza. Dal finestrino adesso si vede la spiaggia davanti a Nuseirat. A bordonon si parla più. È il 55 esimo volo umanitario dell’aviazione giordana da quando è cominciata la guerra, altri 82 ne sono stati organizzati da Stati Uniti, Germania, Egitto, Singapore, Paesi Bassi, Francia, Belgio. Ogni missione dura circa due ore e deve avere l’autorizzazione del comando israeliano, che ne decide orario, tragitto, zona di lancio e carico da paracadutare. In quel lasso di tempo l’artiglieria tace, i caccia rimangono a terra. Quando le condizioni meteo sono favorevoli, partono anche cinque o sei cargo in un giorno. Un ponte aereo del genere, di recente, si è visto solo in Sud Sudan.
Si farebbe molto prima col trasporto via terra: sette volte meno costoso, più efficiente e molto meno pericoloso. In fondo, i sei pacchi che stanno per librarsi in aria occuperebbero la metà del rimorchio di uno dei camion in fila a Rafah. Solo la Jordan Hashemite Charity Organization ha dieci depositi pieni di cibo in scatola e materiale sanitario che non riesce a portare nella Striscia.
«Go!». In un punto imprecisato tra Nuseirat e Deir al Balah, tre pallet scivolano sui cuscinetti e vengono sputati fuori. Ci mettono neanche due secondi. Con un balzo l’uomo delle forze speciali che ha dato il via allo sganciamento si è avvicinato al portellone per controllare che i paracaduti si siano aperti. In piedi sul bordo del pianale di un C-130 traballante, le braccia un po’ staccate dal corpo, la sagoma scura riempie la finestra di luce. «Ok», avverte i suoi, accompagnando l’urlo col pollice alzato. Il primo lancio è andato.
Il secondo, con la stessa identica procedura, avviene poco dopo Khan Yunis. Altre tre tonnellate di cibo, e tre paracaduti scuri sospesi per aria calano lentamente sulla quinta di una città martoriata. Oltre la sagoma dell’uomo legato, si intravedono in lontananza centinaia di edifici anneriti dalle bombe, senza più vetri alle finestre, senza più abitanti, senza più vita. L’ombra del velivolo vira rapida verso il mare, sulla rotta di rientro in Giordania.
A terra i palestinesi sono stati avvertiti che a quest’ora e in questa zona pioverà cibo. Seguiranno il volo a planare dei paracadute, li inseguiranno come i bambini inseguono gli aquiloni. Poi si azzufferanno attorno agli scatoloni, con la rabbia di chi ha molta fame e poco tempo per la cortesia. «Gaza è dedita al dissenso», scriveva Darwish. «Fame e dissenso, sete e dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso». Non esistono file per accaparrarsi il cibo, non esiste un ordine, solo calca e tanta disperazione. Ai più deboli, ai più vecchi, ai meno pronti, non tocca niente. Per gli altri, invece, è tonno dal cielo.