il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2024
Evitiamo gli inganni da Gaza a Mosca
Anticipiamo una parte della prefazione di Piergiorgio Odifreddi al libro di Alessandro Di Battista da oggi in libreria
Per combinazione, Alessandro Di Battista mi ha inviato il manoscritto di questo libro mentre ero in partenza per la Russia.
L’ho letto in viaggio tra Tallinn e San Pietroburgo, perché in seguito alle sanzioni da due anni non ci sono più voli diretti tra i Paesi europei e la Russia: chi vuole recarvisi deve giocare di sponda, per esempio con la Turchia, o strisciare per terra, come ho fatto io. Anche superare il confine non è immediato, perché il ponte di collegamento tra l’Estonia e la Russia è chiuso al traffico. Bisogna prendere un mezzo fino al confine estone, passare il ponte a piedi e tra i fili spinati, e poi prendere un altro mezzo dal confine russo a San Pietroburgo. E naturalmente, una volta in Russia, non si possono più usare carte di credito occidentali: una delle sanzioni ha bandito il Paese dal circuito Swift, e gli europei sono costretti a portare con sé direttamente la carta moneta, che va cambiata in rubli in banca prima di poter essere usata.
Si potrebbe pensare che queste e altre sanzioni abbiano messo in ginocchio la Russia, e che i russi vivano in un’economia di guerra, ma niente è più lontano dal vero. San Pietroburgo continua a essere la solita ribollente metropoli che era; la stessa descritta in maniera incomparabile nel romanzo Pietroburgo dal poeta e scrittore simbolista Andrej Belyj (Adelphi, 2014). Il teatro Mariinskij continua a offrire i suoi famosi balletti, il Museo Russo a esibire le sue straordinarie icone e i quadri di Malevi, i ristoranti e i negozi sulla Prospettiva Nevskij a rivaleggiare con quelli della Quinta Strada di New York, e la Russia a vivere esattamente come prima: solo con meno turisti europei e americani (il che, detto tra parentesi, non guasta).
Cos’è andato storto nelle misure politico-economiche contro la Russia, che erano state annunciate come strumenti per mettere in ginocchio il Paese e il suo presidente, che i nostri giornali chiamano zar (il che, di nuovo detto tra parentesi, è tanto corretto quanto chiamare duce la Meloni)? E, soprattutto, cos’è andato storto al fronte e sui campi di battaglia, nei quali l’enorme superiorità militare della Nato (che spendeva ogni anno il sessanta per cento delle spese mondiali degli armamenti) avrebbe dovuto sconfiggere l’esercito russo (che ne spendeva il 3 per cento) in men che non si dica? Non si doveva così ripristinare l’ordine mondiale del dopo 1989, quando cadde il Muro di Berlino, e soprattutto del dopo 1991, quando si dissolse l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti rimasero l’unica superpotenza al mondo? A queste domande risponde Di Battista in questo libro, nel quale rifulgono le sue note qualità personali. Per chi lo conoscesse solo come efficace polemista televisivo e youtuber, ricordiamo che la sua compassione verso i deboli l’ha portato a lavorare per anni da giovane in Guatemala con la Caritas. La sua passione per l’impegno l’ha fatto emergere in Parlamento come uno dei due leader del Movimento 5 Stelle. E il suo idealismo l’ha spinto a non ricandidarsi dopo un solo mandato, mentre i suoi compagni più realisti coglievano i frutti del loro impegno al governo, e ponevano le basi per la loro successiva sopravvivenza politica.
Alessandro infonde ora in questo libro le rare doti della compassione, della passione e dell’idealismo per raccontarci la discrepanza tra la fantasiosa narrazione della nostra politica e dei nostri media, e la prosaica realtà dei fatti: non solo per quanto riguarda la guerra in Ucraina, alla quale abbiamo già accennato, ma anche a proposito dell’ultimo capitolo della storia infinita del massacro dei palestinesi da parte di Israele. E non a caso le parole “massacro”, “menzogne”, “pretesto” e “verità” compaiono già nei titoli dei primi capitoli di questo libro. (…) Giustamente Di Battista critica anche quella che i militari e i politici israeliani chiamano “dottrina Dahiya”, che prende il nome dal quartiere di Beirut dove Israele la applicò per la prima volta nel 2006. La dottrina prevede una guerra asimmetrica basata su una letterale “risposta sproporzionata”, che va contro ogni ragionevole regola etica o giuridica. Non solo la legge del taglione, che prevedeva invece una risposta uguale e contraria: “occhio per occhio” (o tit for tat, come viene chiamata in teoria dei giochi). Ma persino la proporzione “dieci a uno”, adottata dai nazisti come rappresaglia all’attentato di via Rasella, che portò alla strage delle fosse Ardeatine.
Oggi Israele è già arrivato alla sproporzione “trenta a uno”, e non si fermerà, perché nessuno ha il coraggio di fermarlo, e di trattare Netanyahu e Israele come vengono trattati Putin e la Russia: con sanzioni sempre più forti agli aggressori, e armamenti sempre più potenti agli aggrediti. Il paradossale risultato che la dottrina Eban ha oggi ottenuto è che la gente non teme più di essere tacciata di antisemitismo quando critica Israele. Piuttosto, deduce logicamente che, poiché è diventato imperativo essere antisionisti, allora è diventato imperativo anche essere antisemiti. Da cui l’insorgere di un nuovo antisemitismo in Europa e negli Stati Uniti, frutto diabolico del subdolo gioco di Abba Eban, al quale troppi hanno giocato furbescamente e troppo a lungo in Israele e in Occidente. (…) La domanda cruciale, che Di Battista ci pone nell’ultimo capitolo, è cosa dobbiamo fare noi, e da che parte dobbiamo stare. Il suo libro ci aiuta a scegliere con cognizione di causa, e dobbiamo tutti essergli grati per gli strumenti che ci offre per poter effettuare coscienziosamente la nostra scelta.