il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2024
Il memoir di Escobar
Anticipiamo stralci de “Lo spettacolo infinito” di Sergio Escobar, tra i più importanti direttori teatrali italiani, dall’Opera di Roma al Piccolo di Milano. Il libro esce oggi con Baldini+Castoldi.
È opinione diffusa che i teatri pubblici, per loro stessa natura, siano compiacenti prede dell’invadenza dei partiti. A denunciare queste indebite intromissioni nei teatri e in altre istituzioni della cultura sono spesso gli stessi politici, quando a esercitarle sono partiti a loro avversi. Mi assumo la responsabilità di proporre un paradosso che so essere impopolare: sostengo infatti che il nostro sistema teatrale, soprattutto negli ultimi cinque decenni, non abbia sofferto di troppa ma semmai di troppa poca politica. Sgombero subito il campo dai casi di conclamata, becera intromissione della politica nella gestione organizzativa e artistica di questo o quel teatro. Non sono così ingenuo da negarli, ma so che il lasciare aperta la stage door ai galoppini di partito non ha mai portato fortuna a quei teatri che non hanno voluto resistere alla (resistibile) tentazione di percorrere scorciatoie per sottrarsi alle proprie responsabilità. Penso però anche che la strada verso questa deriva sia stata troppo spesso spianata dallo scarso interesse che anche la miglior politica ha manifestato nei confronti della cultura e in particolare delle istituzioni teatrali.
In quarant’anni di teatro ho ricevuto pochissime pressioni politiche cui ho sempre voluto e saputo resistere senza per questo sentirmi né un eroe né un cultore della neutralità di pensiero. Ricordo quando una persona che avrebbe anche avuto il potere di condizionare negativamente la stabilità economica del teatro che dirigevo mi “fece sapere” che avrei dovuto ritirare dalla programmazione uno spettacolo satirico di Dario Fo ritenuto non gradito al capo del suo partito. Alle conseguenti, incalzanti pressioni di un paio di giornali pur di opposto orientamento politico, fui costretto a rispondere inviando via telefax da Tokyo, dove mi trovavo per organizzare una nuova tournée, una lettera al direttore del Corriere della Sera in cui spiegavo con pacatezza, senza sdegni virginali, le ragioni del mio fermo diniego a cedere a quei “suggerimenti”. Con mia sorpresa l’allora direttore Stefano Folli decise di trasformare la lettera in un pezzo a mia firma in prima pagina con il titolo Chi ha paura del vecchio giullare? L’articolo iniziava così: “La réclame ora si chiama pubblicità, la Tv è a colori da quasi trent’anni, ma i censori continuano a pensarla in bianco e nero, come quella Rai che quarant’anni fa cacciò Dario Fo e Franca Rame. Ma allora le gonne andavano alla caviglia… Da tempo i confronti di idee, di opinioni sono sostituti da furberie e raggiri, gli onesti curiosi dagli scaltri egoisti… Ora i ‘consigli amichevoli’ sono diventati attacchi pubblici: bene, in democrazia è già un passo avanti”. Il risultato di aver portato alla luce del sole gli intrighi di corridoio fu che lo spettacolo rimase regolarmente in cartellone, il Teatro non subì alcun danno e il giorno stesso dell’uscita dell’articolo ricevetti una telefonata, questa sì di un autorevole e stimato esponente della formazione politica coinvolta, pur lontana dalle mie idee, con cui si dichiarava d’accordo con il mio scritto e anzi mi ringraziava per aver tolto di mezzo la questione senza mezzi termini, liberando anche il leader dalla imbarazzante situazione in cui uno zelante funzionario del partito lo aveva messo attribuendogli, a torto o a ragione non so, volontà censorie così grossolane. Spesso sono proprio i portaborse che vivono degli scarti del potere a farsi interessati e maldestri portavoce di pressioni politiche, anche quando non richiesti.
Luca Ronconi nel 1998 era direttore del Teatro di Prosa e io sovrintendente dell’Opera di Roma: la nostra era un’amicizia nata in palcoscenico… In una torrida giornata di metà luglio, quando gli uffici si erano già svuotati per la cessata attività o per il trasferimento dei loro spettacoli all’aperto, io mi trovavo da solo in teatro, mentre la mia segretaria era in pausa pranzo, quando sento suonare il suo telefono nella stanza accanto alla mia e io, che non so resistere alla tentazione di rispondere, corro ad alzare la cornetta: era Ronconi. Anche lui da solo in ufficio. Voleva chiedermi se potevo mettergli a disposizione il palcoscenico del Brancaccio per le prove di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda poiché l’Argentina era inagibile per manutenzione. Saltando ogni preambolo, come accade tra amici e soprattutto con un amico con un carattere come il suo, gli spiego che il Brancaccio non era più gestito da noi. Una pausa, e poi lui aggiunge, solo per spezzare il silenzio: “Mi dicono che quasi certamente andrai a dirigere il Piccolo con…”. E io immagino stia per farmi i soliti nomi, quelli che già circolavano anche sui giornali, quelli dati per certi. E allora, con perfetto tempismo teatrale, completo io la frase: “Con te”. E lui: “Bene”. Così, rispondendo a un telefono non mio e con uno scambio di sole tre parole – con te, bene – iniziava la nostra lunga collaborazione, sotto una luce così anomala e così promettente rispetto a quei tentativi di intromissione “politica” che spesso hanno segnato e, ahimè, continuano a segnare, con interminabili trattative e polemiche, le nomine ai vertici dei nostri Teatri Pubblici.