La Stampa, 24 marzo 2024
Intervista a Daria Bignardi
Luigi Settembrini, scrittore e patriota, in una delle sue Lettere dall’ergastolo, scrisse: «Viviamo ad arbitrio de’ venti, del mare, e de’ marinai». Settembrini trascorse in carcere molti anni: era uno degli indomiti che combattevano per l’Italia unita, e che i borboni tentavano di zittire, chiudendoli in cella a Santo Stefano, un’isola nell’arcipelago delle isole Pontine, quindi un doppio carcere – «Ogni carcere è un’isola, ogni isola una prigione», scrive Bignardi. Quella frase dice, di questo libro, il punto più toccante che racconta, la differenza che c’è tra dentro e fuori: dentro, si sottostà all’arbitrio degli uomini e non alle leggi degli uomini. Daria Bignardi ha a che fare con il carcere da moltissimo tempo, quasi da sempre: a San Vittore è “un Sessantotto”, cioè ha il permesso di entrare e aiutare i detenuti; ha tenuto a lungo una corrispondenza con un condannato a morte in Texas, Scotty; a Ferrara, dove è nata e cresciuta, abitava accanto al carcere; a Milano, sua casa adottiva, ha abitato per 8 anni sul lato nordest di San Vittore, e ora abita su quello sudovest; uno dei suoi primi fidanzati è finito in galera per droga, e lei aveva 19 anni. In questi anni ha incontrato delinquenti e innocenti, ex brigatisti, rapinatori (uno della banda di Vallanzasca), ha lavorato con loro, o ci ha soltanto parlato, è solo andata a trovarli, e in questo libro ne ha raccontati alcuni, a volte uno per una, altre tutti insieme, e ha raccontato le sue due vite, dentro e fuori, e come s’intrecciano, e perché avere a che fare con il carcere significa avere a che fare con quello che veramente conta, e perché in carcere c’è la vita com’è. Non lo aveva mai fatto, ma il carcere, in verità, in molti modi, è entrato in tutti i suoi libri, come un amore finito ma non passato, come la musica nei ricordi. Ha scritto il libro in un’isola, Linosa, perché in un’isola, come in prigione, c’è tutto quello che conta, si soffoca e non si corrono pericoli.Bignardi, perché dice di non riuscire a stare lontana dal carcere?«Ci ho messo un libro intero per capirlo. Forse si soffre di mal di carcere come di mal d’Africa perché le galere sono luoghi estremi, pieni di contraddizioni, di umanità, ingiustizie, come la vita. In carcere però non ci sono i tramonti e a differenza che in Africa è tutto molto brutto, tranne i rapporti umani».Quando esce da lì, come si sente?«Grata per gli incontri che ho fatto, sollevata di essere libera e triste per chi ho salutato, sapendo che la notte in carcere è il momento peggiore».Si sente mai in colpa?«In colpa no, perché».Quando, nella sua vita fuori, pensa al carcere?«Quando fa molto caldo penso che dentro si soffoca, quando fuori fa freddo penso che dentro si gela. Se durante le Feste comandate o le domeniche sono triste, so che dentro sono disperati. Durante la pandemia, se noi eravamo soli, loro erano sepolti vivi. Se rimani chiuso in ascensore, o in una cabina armadio come è successo a me, pensi alla claustrofobia di chi sta in cella».C’è un sentimento che non aveva mai provato e che ha provato lì?«L’antivigilia di Natale di tanti anni fa con un gruppetto del penale, detenuti con condanne lunghe e definitive, abbiamo cantato Io vagabondo a squarciagola in una stanzetta con le sbarre che misurava 3 metri per 4. Io poi sarei uscita e loro rimasti, ma mentre cantavamo eravamo uguali, con lo stesso identico bisogno di amore e di libertà».Che differenza c’è tra “le persone di fuori” e le “persone di dentro”?«Chi sta dentro o è stato dentro avrà per sempre qualcosa di meno e qualcosa di più. “Chi è stato carcerato una volta lo rimane per sempre” dice Pino Cantatore, che ho conosciuto vent’anni fa a San Vittore mentre scontava due ergastoli. L’ho rivisto un anno fa, ora è libero ed è un imprenditore illuminato che dà lavoro qualificato a 160 detenuti. A Bollate».Ha mai avuto paura di un detenuto?«È più probabile essere aggrediti da un altro automobilista a un incrocio che da una persona detenuta. Le persone detenute hanno rispetto di chi si interessa a loro e generalmente sono molto educate».Quando parla dei suicidi, dice un dato di cui non si parla mai: il numero molto alto di agenti penitenziari che si ammazzano (100 negli ultimi dieci anni).«Ora purtroppo sono molti di più. Sempre Pino dice “Se in carcere sta male il detenuto sta male anche la guardia: sono convinto che gli stessi che hanno picchiato a Santa Maria Capua Vetere a Bollate non lo avrebbero fatto”. Nessuno capisce e difende gli agenti meglio dei detenuti, non per niente condividono lo stesso disastro. Ho parlato con tanti agenti. Uno mi ha detto “Il carcere è la cosa più stupida che ci sia” e quando gli ho chiesto “Allora perché ci lavori” ha risposto “Finchè esiste, qualcuno deve occuparsene”. Un altro, che aveva visto il padre comunista piangere solo una volta, ai funerali di Berlinguer, mi ha detto che suo padre era fiero di lui perché serviva lo Stato. Certo che ci sono anche le carogne e le teste di cazzo, come in ogni mestiere. In carcere casomai – sadici a parte – le carogne le giustifichi più che fuori perché fanno un lavoro malsano e malpagato in un posto orrendo. Poi hanno ragione quelli che dicono che certi lavori, come l’agente, l’insegnante o il prete, dovrebbe farli solo chi ha la vocazione. Ma le mele marce non esistono: è il sistema carcere che è strutturalmente guasto».In tutti i suoi libri, ci sono le telefonate di sua madre. Questo racconta qualcosa sulla libertà, e sul paradosso per cui la vogliamo tantissimo e però poi quando la abbiamo, non sappiamo bene che farcene, e rimpiangiamo chi o cosa ci impediva di averla?«Ho pensato anch’io a mia madre scrivendo di carcere ma non nel senso che dici tu: lei ricordava proprio il panopticon, di cui scrive Foucault in Sorvegliare e punire: “Il detenuto non deve mai sapere se è guardato nel momento attuale; ma deve essere sicuro che può esserlo continuamente"».«Se ho imparato qualcosa in questa pandemia è che si deve vivere senza fare progetti. Ma forse lo dimenticherò». Lo ha detto in un’intervista di qualche anno fa. Chi vive in carcere fa progetti?«Ne fa di continuo e a lunghissimo termine. Vive progettando e aspettando: la telefonata, la lettera, il colloquio, il processo, il permesso, magari la comunità, l’affidamento, l’articolo 21, la semilibertà o il fine pena. Tutti, o quasi, progettano di non tornarci mai più. Ci riesce una minoranza: quelli che in carcere hanno imparato a fare un lavoro qualificato. Pochissimi».Ha smesso di cercare le lettere di Scotty?«Il condannato a morte americano col quale mi scrivevo da ragazza? Ieri è successa una cosa incredibile. Tornavo dalla Mondadori dove avevo visto il libro per la prima volta. Ne avevo qualche copia con me. A casa mi sono messa a cercare le lettere di Sisto, un ex detenuto che non vedo da vent’anni e che avrei incontrato presto perché cercherò di coinvolgere in ogni presentazione qualcuno di cui ho scritto. Le avevo messe in una cartellina di cartone rigido perché erano piene di fiori seccati che Sisto raccoglieva tra i lastroni di cemento dell’ora d’aria. In mezzo alle lettere di Sisto è spuntata la lettera di Scotty che avevo perso. Ma non l’ultima, quella che mi ha scritto prima che gli facessero l’iniezione letale: la prima. È stato come se mi mandasse un segnale. Lo so che non c’è nessun segnale, ma è stata una coincidenza commovente».Esiste il male nelle persone?«Sì, esistono gli Angelo Izzo, anche se credo siano pochi. Ma in piccole o grandi proporzioni esiste in ognuno di noi».Il carcere va abolito?«Non lo dico io, lo dice Luigi Pagano, che è stato direttore di carcere per 40 anni. Di 60mila detenuti che sono in galera avrebbe forse senso che ce ne stessero 6mila, e in altre condizioni».Scrive: “Adriano (Sofri, ndr) ha sempre ragione, ce l’avrà anche su questo”, quando riporta la sua obiezione sulla questione centrale della criminalità. Perché è scettica?«Adriano è il nonno dei miei figli ed è un grande amico. Lui ha a cuore i temi del libero arbitrio e della responsabilità e ne sa certamente più di me visto che è stato un detenuto per vent’anni. Lo so anch’io che, come dice il Vangelo di Giovanni, “Gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce” ma non penso sia un caso se in prigione stanno soprattutto i più poveri e disgraziati e meno istruiti. Sai cosa mi scriveva Scotty nella lettera che ho ritrovato? Che nel braccio della morte, dove stava lui, di ricchi non ce n’erano».Quando racconta di una sua visita in un penitenziario femminile in Albania, dice di aver chiesto alle detenute se sanno spiegarsi come mai maschi, in galera, non piangono, mentre le donne sì. Le chiedo la stessa cosa.«Purtroppo, come fuori, le donne stanno peggio. Perché le donne sono solo il 4 per cento e tutto è pensato per gli uomini, come fuori del resto, anche se fuori siamo di più noi. E mentre gli uomini detenuti spesso hanno a casa donne che pensano a loro, le donne in carcere (e ci stanno quasi sempre per colpa di un uomo) vengono ripudiate e abbandonate. In più, soffrono enormemente per i figli lontani».Si è mai innamorata?«No, anche se ci sono un sacco di begli uomini, più che fuori. Ma non ti viene proprio da flirtare con chi soffre».Che significa essere utili alla società?«Far quel che si può per dare una mano agli altri?».Tornerà a Linosa in vacanza?«Se riesco. Perché anche Linosa spesso diventa una prigione: se c’è mare grosso, dato che non ci sono porti, dipende dalla buona volontà del comandante di turno decidere se tenta o no l’attracco e dato che la Regione Sicilia ha incautamente affidato il monopolio a una sola compagnia di navigazione, che prende un sacco di soldi dallo Stato senza garantire la continuità territoriale, non è che ci sia molta competitività negli attracchi. Così Linosa è spesso isolata e abbandonata al suo destino come tante piccole isole ma più delle altre perché non ha un’amministrazione propria ma è “sotto Lampedusa”. La disastrosa situazione dei trasporti sulle isole minori in Sicilia è una questione politica importantissima e ignorata».Quali libri ha letto mentre scriveva Ogni prigione è un’isola?«Tantissimi e li cito tutti. Uno dei più belli è L’Università di Rebibbia di Goliarda Sapienza».Cosa è più chiaro degli esseri umani, in carcere?«Come sono veramente. Come scriveva Svetlana Aleksievi? dei militari russi in Afghanistan: “Nelle condizioni di laggiù l’uomo è come illuminato a giorno. Se era un vigliacco, la cosa diventava presto evidente: era un vigliacco. Se era un delatore, non c’era da attendere molto prima che lo dimostrasse"».Com’è il mondo di fuori visto da dentro?«Un po’ matto ma bellissimo». —