La Stampa, 24 marzo 2024
Il piccolo mondo di Maggiani
Qui, nella stanza dove sto lavorando, sono presenti e attivi sette dispositivi elettronici tra computer, tablet e smartphone, li governo con pugno di ferro e con dodici tra password e codici sin dai tempi del loro illustre antenato, un Apple Macintosh acquistato con 58 comode rate da 100.000 lire cadauna nel remoto 1985. Direi dunque che so tenermi al passo con i tempi, e posso persino dirmi un precursore. Ma io non sono tutto qui, per altri versi non sono che il relitto di un altro mondo spiaggiato sulla battigia della contemporaneità.Il mondo da cui vengo, dove sono nato e cresciuto, non solo appartiene a un altro secolo, ma a tutt’altra cultura, tutt’altra società, è il mondo dell’ultima età dell’Italia contadina; non farò in tempo a finire l’album del 2000, dove in 100 figurine colorate era illustrato l’inimmaginabile a venire di lì a quarant’anni, che già quel mondo era in dissoluzione, e quando in casa nostra arrivò la televisione in occasione delle Olimpiadi del 1968 lo si poteva ben dire estinto, per fortuna nostra, per fortuna del Paese. Ma non estinto chi lo aveva vissuto, non io che sono ancora qui. E visto da qui, visto da questo nuovo mondo, quello può essere compendiato nei tre pilastri che lo reggevano, arretratezza, ignoranza, superstizione. Certo, che altro. E io ne sono portatore.Io sono ancora quello che, spento il device, se sentirà, come è successo ieri sera, il richiamo della civetta, si affaccerà alla finestra per vedere se si è posata sul tiglio, così da stare al sicuro lei e tutti noi, o per caso sul tetto della nostra casa, la qual cosa ci porterà notizie, e non è detto che saranno buone. Sono quello che si è appena fatto una bella risonanza magnetica nel più evoluto dei presidi sanitari della regione, ma sa, e le sue superstiti ziette ancora glielo confermano, deve la vita alla sua bisnonna Veronica, quando, ancora in fasce perché nell’arretratezza c’erano le fasce e non i pannolini, a causa di una gastroenterite rischiava la morte se non fosse intervenuta con un radicale trattamento per l’estirpazione del malocchio, la qual cosa costrinse la vicina a uscire di casa nella notte per bussare alla porta e chiedere pietà e a me salvò la vita. E sono quello che stasera a cena, se distrattamente qualcuno poserà sul tavolo la forma di pane rovesciata, correrà a rimetterla nel giusto verso, perché altrimenti ne soffriranno i marinai, per l’ovvia ragione che se un pane è rovesciato vuol dire che rovesciata si è la nave. E se del pane ne avanzerà, non tollera che lo si butti, ma va a spargerlo oltre il giardino, che di certo un merlo o magari una volpe ne saranno contenti.Sono quello che, pur senza una vera fede e una qualche religione, accoglie volentieri il prete che viene a benedire l’edicola della Madonna delle Saette che protegge il nostro frutteto dalla grandine, e serenamente constata che la grandine qui non ha mai fatto danni. E così via, nel gorgo dell’ignoranza, dell’arretratezza, della superstizione.E io, io ho forse il coraggio di credere a tutte queste idiozie intanto che le ricordo e le pratico? Non lo so se ci credo, non me lo chiedo nemmeno; so solo che sono quello, che da lì vengo e che almeno so che vengo da qualche parte, e quella parte mi ha tenuto in vita, ha fatto dell’esserlo in vita un’epopea, me ne ha consegnato della vita, della mia e di ogni altro essere, una sacralità che ne preserva, anche nell’infamia di questa stagione della contemporaneità, una dignità intangibile. Questo fa di me uno strambo reazionario? Forse, forse un fossile vivente inutilizzabile socialmente. Oppure un resistente, perché no? Quest’orma fossile di quel mondo fortunatamente trascorso è pur sempre un valore, non spendibile ma un valore, e dunque non seppellirla sotto il niente del presente una forma di resistenza.Voglio per questo raccontarvi dove ho pranzato domenica scorsa. Sì, perché, a proposito di altri mondi, ho avuto l’onore di partecipare al Sacro Banchetto di San Giuseppe. C’è un paesello laggiù nel Molise che non mette assieme mille abitanti, si chiama Guardialfiera e se ne sta da mille anni e più sulla sua collina a guardia del Biferno. Ha una storia, certo, ed è una delle infinite storie ignote alla Storia; a Guardialfiera c’è passato un papa, che ha lasciato qualche benedizione, ma non c’è passato Garibaldi, così che nemmeno per quell’istante di sognante rivoluzione s’è liberato dalle maledizioni del latifondo. Cafoni erano per i Borboni e cafoni sono rimasti per i Savoia, per la Repubblica un debito mai risarcito. Contadini zappatori di miseria, custodi di ignoranza, arretratezza e superstizione, eppure hanno avuto la grandezza di mettere al mondo un loro cantore, Francesco Jovine, l’autore delle Terre del Sacramento, una splendida storia dimenticata in fretta.C’è una cosa che riconosco del mio passato mondo in quello di Guardialfiera oggi, ed è il lindore, la pulizia, la dignità di quell’accrocco di vecchie case, eppure tante messe in vendita a prezzi risibili da chi non ha più voglia di tornare. E poi ci sono bambini per strada, e c’è persino una scuola per loro, c’è ancora vita in quell’antico, lontano pianeta. E c’è il Sacro Banchetto in onore di San Giuseppe che, c’è in paese un vecchio signore che garantisce per lui, si tolse il pane dalla saccoccia per darlo a un affamato. Così si dice, non c’è nulla di scritto, non c’è un canone riconosciuto, non una conferma nei secolari registri parrocchiali, non una normalizzazione di una qualche autorità ecclesiastica; si celebra non si sa da quando, si continua a celebrare perché ci si ricorda che è così da quanto sa spingersi addietro nelle generazioni la memoria collettiva. Non è folclore perché non c’è spettacolo, non è evento perché non ci sono manifesti, non è risorsa perché non ci sono turisti, non è festino perché non ci sono inviti. È solo cosa sacra, la parte di sacro che spetta al nutrimento.Così, ogni anno per San Giuseppe, le due, un tempo tre e forse quattro, famiglie che possono dare preparano un banchetto di tredici portate, da sempre tredici e da sempre le stesse, composte con ogni verdura degli orti, la pasta della semola molata dal solito mulino, e da ogni variante del baccalà, il sontuoso magro della quaresima. E il vino delle vigne di paese, e il pane, le enormi ruote di pane da sei chili che cuociono in forni che a vederli sembrano bocche d’inferno. Al banchetto a cui mi sono seduto eravamo in ottantadue in un grande fondo, una vecchia rimessa, per ognuno c’era un piatto di porcellana e un bicchiere di vetro, vecchie e robuste posate; per accedere non è chiesto l’Isee, non è chiesto chi sei, devi solo avere la grazia di salutare la famiglia che ha lavorato una settimana per te. Niente cerimonie, solo la padrona di casa che ha recitato una breve, semplice, remota preghiera, e la famiglia intera che serviva, in silenzio.E c’era una stanza a parte, la stanza più bella della casa; in quella stanza un tavolo apparecchiato con tre tovaglie sovrapposte, una vecchia e andante per la povertà, una di mezzo per la dignità e la migliore per la santità. A quel tavolo ha pranzato, isolata e inavvicinabile, la sacra famiglia servita a piedi scalzi in assoluto silenzio. San Giuseppe e Maria scelti per la vita senza un criterio che mi sia stato rivelato, il bambinello a gara tra i pochi del paese. La sacra famiglia le tredici portate le assaggia soltanto, per lei è preparato a parte un’abbondanza bastante per arrivare alla Pasqua, che riceverà alla sera nella sua casa con la massima discrezione. C’era tutto il paese di Guardialfiera al Sacro Banchetto? No, e per chi non voleva o non poteva partecipare, per tutta la mattina, bussando alle porte, fermando per strada, da enormi cesti portati in pellegrinaggio sono stati distribuiti piccoli pani tondi; ognuno l’ha gradito ringraziando, compresi i ragazzini scesi dai loro skateboard, e tutti l’hanno baciato. E questa cosa di baciare il pane non la vedevo da quando, in quell’altro mondo, si baciava il pezzo di pane caduto per disgrazia a terra.Una faccenda di grande complessità il Sacro Banchetto, con i suoi sussieghi e i misterici rituali, i suoi non scritti e nemmeno detti, così come è ovvio che sia in quel mondo perduto la messa in scena della fame e del bisogno, della disponibilità e il dono, che altrimenti è solo questione di vita e di morte, liquidata in silenzio. In ogni cosa, in ogni gesto, in ogni cibo, in ogni sguardo, in ogni saluto, una grande dolcezza, e una ineffabile tenerezza, ed è gente che se è arrivata fino al banchetto sana e salva lo deve alla fermezza, alla fatica, alla perseveranza.Non sono Ernesto De Martino, non sono neppure un antropologo andante, e non tutto ho capito, non tutto decifrato e glossato; tutto quello che ne so è che riconosco quella gente e il suo daffare, in qualche modo sono dei miei. E riconosco che niente in quella grande opera, perché c’è grandezza in quel Sacro Banchetto, risolve qualcosa; niente degli inverecondi contrasti, delle persistenti e rinnovate miserie sociali, niente nemmeno delle miserie culturali, niente di niente dello scandalo di come si sono messe le cose del nuovo mondo. Ciò che ti porti nel cuore risalendo quassù è persino poco dicibile, figuriamoci se possa servire a dare la linea, a farne un esempio, una politica. Eppure so anche che porta in sé un valore prezioso, anche se un valore assolutamente non spendibile. Un valore senza valore nel mondo che riconosce un umano solo per ciò che di lui può essere venduto e comprato, e dunque una asserzione di squisita resistenza. —