La Stampa, 24 marzo 2024
La nuova Cortina di Ferro e lo spettro dello "scontro inevitabile"
È stato uno degli ultimi giorni di quasi pace o uno dei primi giorni di guerra? Tra qualche mese forse daremo una risposta su quanto è accaduto in questa domenica sulla sterminata frontiera della nuova Cortina di ferro, la descriveremo come una variante inedita dell’avvio del conflitto; e rimpiangeremo di non aver intravisto nella sua banalità il marchio nauseabondo di ciò che era già terribile evento. Ricorderemo il passato come se strofinassimo dei vetri.
Forse c’è ancora tempo per denunciare a voce alta e forte i rischi, per porre domande? Non so. Sta scadendo il rinvio in cui sembra possibile, in Occidente, di fare lo zapping con il Male, di rinviare l’appuntamento con il Tragico. Ci sono in giro molti, troppi dottori in ottimismo che garantiscono una guerra bramanica su cui aleggerà un profumo di inevitabilità storica, di destino manifesto. Intanto si accendono scintille, qua e là, il telaio della tensione ronza sempre più forte, si saggiano le difese avversarie, aerei russi e americani si scambiano picchiate e loop sul mar d’Azov, un missile prova a verificare la prontezza della contraerea polacca, prove generali, nelle periferie della prima linea globale, in Armenia, misteriosi attacchi allungano e moltiplicano l’eco di un terrorismo opaco in cui agiscono, forse, dei prestanome sciagurati. Intanto le fanterie in prima linea arrancano prolungando la quotidiana carneficina in sperduti villaggi, i russi hanno ripreso ad avanzare con il loro ritmo da implacabili e ottusi dinosauri. Missili e droni solcano ogni notte in un interminabile tentativo di urbinicidi a puntate. Ultimo intervallo o la pace si disfa maglia dopo maglia, come un filo, muore furtivamente come se avesse terminato un compito, secondo un orario?
In un tempo così caldo e confuso si attende, senza più alternative, con il cuore in gola, l’episodio tragicamente risolutivo. Un pilota troppo inesperto o troppo deciso che scarica le sue armi oltre la frontiera del tollerato o abbatte un aereo che ha sconfinato. O l’artiglieria che allunga il tiro: errore? Semplici rapporti sulla banalità del peggio.
La guerra risuona, la si sente già in questo collettivo, quasi morboso acuirsi della sensibilità. È come essere in una prigione, non c’è nulla come la vigilia di un conflitto che aiuti di più a sentire il mondo.
Così fu nel 1914 e nel 1939: eppure allora l’informazione su quanto accadeva nell’opinione pubblica era infinitamente inferiore a oggi, per ragioni tecniche e in alcuni Paesi per aguzze censure totalitarie. Ma come oggi, funzionò il condizionamento che doveva portare al gesto folle della guerra, l’addestramento tecnico, intellettuale, spirituale che doveva garantire che si andasse fino in fondo, che nessuno sbandasse invocando tutto ciò che lega l’uomo alla vita, alle passioni dell’esistenza.
Così gli avvenimenti giorno dopo giorno, ti avvinghiano, ti immobilizzano, ti impediscono di ragionare e giudicare quanto si sta preparando, sono viscidi; e di colpo ti trovi di fronte e devi accettare uno scopo che non volevi, a cui non tendevi. Il sapore amaro del pericolo è frazionato così bene che solo poco alla volta brucia la bocca.
Si ascolta, nei due campi, che la guerra è necessaria, inevitabile perché bisogna riparare l’offesa del male, che sta ovviamente tutto dall’altra parte; e quindi i politici, coloro che decidono, si sentono disinvoltamente scaricati da ogni responsabilità. Della sacrosanta difesa dell’aggredito ucraino, come avveniva nella prima fase della guerra, non parla più nessuno. Le democrazie giustificano tutto, il riarmo forsennato, l’economia di guerra, l’arruolamento necessario, l’arsenale di tutte le barbarie possibili, con la garanzia che quello che faranno i russi è e sarà molto peggio di quello che potremmo fare noi.
L’istinto di aver ragione, di essere il Giusto, inizia a muovere verso pericolosi eccessi. L’essiccatoio dello spirito asciuga la ragione di uomini che fino a qualche settimana prima sembravano refrattari a pericolose negligenze. Siamo entrati in una epoca sorda, spaventata ma anche contenta irrazionalmente di sé, mentre la guerra vera fa tic tac vivacemente come l’orologio nella stanza di un morto.
Il timore irrazionale ossessivo dei traditori, dei collaborazionisti con la penna e la parola, che è torbido, pestifero e obbligatorio impasto della autocrazia, adesso ci contagia. È già atmosfera di guerra l’obbligatorietà di alcune sbalorditive sciocchezze bandite come dogmi evidenti. Putin è un torvo realista consapevole dei suoi limiti di potenza come la guerra in Ucraina gli ha svelato impietosamente, ha la Russia nelle mani ma quelle mani sono inesorabilmente sempre più aggranchite. E invece si assicura: sta già preparando l’attacco ai baltici, ai polacchi, punta ad arrivare a Berlino come Stalin, è un Attila pazzo che sogna di putinizzare il mondo… Il totalitarismo ha come nemico più pericoloso proprio il senso critico, si affanna a sterminarlo. E noi rinunciamo a quella che sarebbe la nostra arma migliore. —