la Repubblica, 24 marzo 2024
Intervista a Sandro Mazzola
Un uomo fragile e gentile insegue da 75 anni l’ombra di suo padre. Sandro Mazzola ci accoglie sulla soglia di casa, una palazzina bassa e chiara nell’hinterland di Monza. Tra le labbra, l’immancabile sigaro spento. La stretta di mano è poco più di una carezza. Oggi, Mazzola è una creatura d’altri mondi.Sandro, cosa ricorda di quando a Superga morì il grande Valentino?«Avevo sei anni e mezzo. La mamma mi portò dai nonni a Cassano d’Adda, per proteggermi.Abitavamo vicino al campetto sportivo, dove giocavo a pallone con gli altri bambini. C’erano queste persone che venivano ad accarezzarmi e mi parlavano in dialetto: ci misi un bel po’ di tempo a rendermi conto che mi stavano dicendo che il mio papà era morto».In una famosissima fotografia, il capitano del Grande Torino allaccia i calzettoni a un bimbo con la divisa granata: lei, Sandro.«Ho l’originale di quella foto. Papà mi portava agli allenamenti, io restavo a palleggiare nello spogliatoio e guardavo i campioni. A volte, il portiere Bacigalupo mi faceva tirare un rigore: calciavo e lui si tuffava dalla parte opposta.Facevo gol e mi sentivo un giocatore vero. Il Grande Torino è stata la squadra più forte di tutti i tempi».Lei e suo fratello Ferruccio, che diventò anche lui un giocatore, parlavate mai di papà?«No, perché Ferruccio era troppo piccolo per ricordarlo: il 4 maggio saranno 75 anni dalla tragedia. Però, ripenso a quando io e lui facevamo le partite con i tappi della Coca Cola, e appoggiavamo la maglia granata del papà vicino a noi».Lei era la mascotte granata.«Prima dei derby contro la Juveentravo in campo per mano a mio padre, e il bianconero Depetrini faceva lo stesso col suo bambino.Noi piccoli ci guardavamo in cagnesco».È stato un peso essere il figlio di una leggenda?«Sì. I tifosi dell’Inter all’inizio dicevano “quello non sarà mai come suo padre, se si chiamasse Brambilla e non Mazzola non sarebbe qui”. Io ne soffrivo. Tornavo a casa e non mangiavo, andavo direttamente a letto. Quando poi sono diventato davvero un giocatore, ogni volta che tornavo a Torino mi sentivo come intronato: guardavo la basilica sulla collina e mi tremavano le gambe. Mi rivedevo bambino. Quando lo storico magazziniere Zoso mi portò nello spogliatoio del Filadelfia per mostrarmi l’armadietto di papà, mi misi a piangere. Per me, Valentino Mazzola era il cimitero, i fiori e le lacrime di mia mamma».È vero che il mitico Puskas le parlò di lui dopo la finale di Coppa dei Campioni del 1964?«Battemmo il Real Madrid a Vienna e io segnai due gol. Dopo la partita, aspettai Puskas davanti alla porta del loro stanzone: uscì, mi venne incontro e mi disse “bravo, io ho giocato con tuo padre e posso dire che forse sei degno di lui, forse”.Non capii più niente dalla gioia».Erano in tanti a raccontarle di Valentino?«Gianni Brera mi disse che era stato il più grande giocatore italiano della storia. Anche per Boniperti era così.La Juve cercò due o tre volte di comprarmi, ma io quella maglia non avrei mai potuto indossarla. Un altro che mi parlava di papà era l’artigiano calzolaio di via Olmetto, a Milano, che gli cuciva gli scarpini dagioco. Ci andai anch’io: ero solo un ragazzo, e dopo si trattava di pagarle. Risparmiavo 25 lire a settimana sulle corse dei tram che l’Inter mi rimborsava, andavo a piedi e così mi compravo le scarpe.Oppure, me ne facevo passare un paio da qualche giocatore più anziano, solo che mi andavano sempre larghe. Quando finalmente diventai titolare, quell’artigiano le scarpe me le fece gratis».Per molti anni, lei non ha voluto parlare di Valentino Mazzola: perché?«Mi sembrava di non essere degno, in fondo che c’entravo? Un dolore grande che preferivo tenere per me.Poi s’invecchia e le cose cambiano».Il grande Meazza è stato un suo allenatore: cosa le diceva di Valentino?«Più che ascoltarlo, io il Pepp mi incantavo nel guardarlo giocare. Era già vecchiotto, ma quando sbucava sul campo in maglietta e calzoncini era una festa. Passava la palla e la tirava ancora meravigliosamente».Invece, che ricordo ha di Pelé?«Lo affrontai per la prima volta a San Siro, nel 1963. Stavo immobile ad ammirarlo, al punto che lui mi si avvicinò e disse “ragazzo, se non ti svegli ti faccio tre gol”».Uno, memorabile, lo segnò all’Italia nella finale del ’70.«Eravamo stanchissimi dopo l’epica semifinale vinta contro i tedeschi. Io seppi che avrei giocato titolare contro il Brasile soltanto la sera prima, e fu una notte insonne».La famosa staffetta con Rivera.«Soltanto in Italia si poteva inventare una simile assurdità. Io e Gianni eravamo nati per giocare insieme: con lui mi sono divertito come con pochi altri. Guardava a sinistra e poi, pùm, passava il pallone a destra. Come il grande Meazza. Io però correvo più diGianni».Un altro di quei giganti, Gigi Riva, ci ha lasciato da poco.«Fantastico Gigione! Voleva sempre vincere e segnare. Scattava come un fulmine sulla fascia sinistra e pretendeva il passaggio perfetto: se non gli davi la palla bene, alla fine dell’azione si avvicinava, ti puntava un dito in mezzo alla fronte e ti diceva “se la prossima volta non me la passi come si deve, ti spacco in due e ti mando in tribuna”. Poi si metteva a ridere. Mamma mia…».Mazzola, lei come sta oggi?«Me la cavo, ogni tanto qualche ricordo sparisce ma non i più lontani: quelli, li tengo stretti.Diciamo che sono abbastanza in forma e posso giocare gli ultimi dieci minuti. Ma non al posto di Rivera, eh: io e lui quei dieci minuti li giochiamo insieme! Entro all’ottantesimo e faccio gol».