la Repubblica, 24 marzo 2024
Le rotte dei migranti
La punta della piroga appare per un attimo e poi si perde risucchiata giù nell’ottovolante delle onde alte due metri. Sembra un’imbarcazione del neolitico ma a spingerla non sono i remi ma potenti motori montati poco prima della partenza dai trafficanti a cui i pescatori del Senegal le hanno vendute.Qui il mare, anzi l’oceano, è sempre grosso e minaccioso e non ci sono né navi umanitarie né flotte di soccorso organizzate. Per sperare di sopravvivere agli 800-1.000 km di traversata (a seconda del luogo di partenza) ognuno cerca in cielo la stella che nasconde il suo dio e poi spera che alle ultime pericolosissime miglia si materializzi una motovedetta del Salvamento marittimo. È successo così, e gli è andata davvero bene, agli ultimi 70 arrivati giovedì scorso.Benvenuti a El Hierro, selvaggia isoletta delle Canarie sconosciuta ai più, porta d’Europa nell’Atlantico, quella che adesso i trafficanti hanno individuato come la meno controllata dove indirizzare le decine di migliaia di migranti in fuga da Senegal e Mali e quelli che arrivano con le carovane dall’Africa subsahariana in Mauritania: 12.000 persone solo nei primi due mesi del 2024, il doppio delle 6.000 sbarcate in Italia nello stesso periodo.Guai a chiamarla la Lampedusa dell’Atlantico, però, come pure verrebbe naturale. Gli abitanti si inalberano subito: «Non paragonateci a Lampedusa, qui non lasciamo morire la gente in mare. Per noi il soccorso è sacro, qui salviamo tutti e accogliamo tutti con grande solidarietà e umanità», dice Haridian Marichal, cronista della RadioTelevision Canaria, sempre presente sul molo de La Restinga, il porticciolo all’estremosud dell’isola, punto di approdo dei vecchi cayucos.Un appunto che non è certo rivolto agli abitanti di Lampedusa che, per solidarietà, non sono secondi a nessuno, semmai alla narrazione della politica italiana sulla migrazione che arriva fin quaggiù: quella di un Paese che privilegia la difesa dei confini alla salvaguardia delle vite umane.Dodicimila arrivi solo tra gennaio e febbraio sulla rotta Canaria, dove i morti però difficilmente si riescono a contare visto che la maggior parte delle vecchie piroghe che partono e non arrivano si inabissano nell’Atlantico senza lasciare alcuna traccia. Dall’inizio dell’anno i morti documentati dall’Oim sono 111, gli ultimi quattro trovati senza vita sul fondo di due piroghe arrivate nei giorni scorsi. Nessuno sa chi fossero quei quattro ragazzi morti di sete e arsi del sole che sono stati sepolti nel cimitero di El Pinar, in cima al monte nel cuore di El Hierro che, così come accade a Lampedusa, alle vittime senza nome dei naufragi ha dedicato una sezione: quattro bare, segnate da una R e da un numero, salutate poco prima dell’inumazione da quattro compagni di viaggio sopravvissutialla traversata. «Qui nessuno si pone il problema della competenza del soccorso, qui ci siamo noi e basta, usciamo con qualsiasi tempo e portiamo a terratutti – racconta Josè Manuel, membro dell’equipaggio della Salvamar Adhara, la motovedetta del Salvamento marittimo nazionale, unico avamposto dei soccorsi in questo tratto di oceano Atlantico – basta guardare cosa sono quelle piroghe su cui viaggiano anche in 300 per capire che affrontare laruta Canaria èuna roulette russa». Fa paura vedere quelle piroghe scomparire tra le onde dell’oceano con centinaia di corpi che si stringono gli uni agli altri, come fa tenerezza osservare gli intarsi e i disegni sbiaditi delle popolazioni locali, una volta tirate in secca, pronte per essere distrutte.Perché se c’è una regola, a El Hierro, è che per questi flussi migratori che da cinque mesi ormai hanno subìto un’impennata, l’isola non deve pagare alcun dazio. E, dunque, niente scheletri di barconi che rendono inagibile il porto (come accade a Lampedusa) e soprattutto niente scene apocalittiche sul molo de La Restinga, né persone lasciate a vagare lungo l’isola. Ed effettivamente se c’è una cosa che fa impressione in questa isoletta che negli ultimi mesi ha visto sbarcare più gente dei suoi 11 mila abitanti, è che di migranti per strada o nei tre piccoli centri di Valverde, El Pinar e La Restinga, non se ne incontra neanche uno. «Qui restano 24 ore, al massimo 48 se ci sono più sbarchi di seguito – spiega Haridian Marichal – Al porto de La Restinga è stata realizzata una tensostruttura fissa dove le persone, al riparo da sole o pioggia, ricevono i primi soccorsi, vengono rifocillati e identificati, poi vengono portati nel centro di accoglienza per un giorno o due e trasferiti in quelli delle isole più grandi, Tenerife o Gran Canaria, o nella Spagna continentale per le procedure di asilo. Qui restano solo i minori che spesso vengono ospitati con grande spirito di accoglienza dalle famiglie» Ed è su per i monti, fino all’ex centro ippico di San Andrès, che bisogna inerpicarsi per trovare gli ultimi sbarcati. Sono un centinaio, tutti uomini, felpe azzurre e pantaloni di tuta neri appena ricevuti, si aggirano spaesati tra le tante tende bianche montate all’interno di un’area recintata e controllata dalla Guardia Civil. Non si può entrare, ma con loro si può parlare tranquillamente.Certo, non è tutto oro quello che luccica in quest’isola dove nessuno pronuncia mai la parola emergenza. «La politica migratoria spagnola non è diversa da quella del resto d’Europa – osserva Helena Maleno, della Ong Caminando Fronteras – Non c’è differenza tra Meloni e Sanchez. Entrambi hanno come obiettivo il respingimento dei migranti e l’esternalizzazione della difesa delle frontiere a detrimento dei diritti umani. Gli Stati invece avrebbero il dovere di proteggere il diritto alla vita. E chi riesce ad arrivare finisce sfruttato al lavoro nei campi, nelle case, anche sessualmente fino a quando non riesce ad avere i documenti».