Corriere della Sera, 24 marzo 2024
Luigi Einaudi nel 1918: gli Usa sono intervenuti in Europa
Che l’invidia del rapido arricchimento tedesco sia stata la causa dell’entrata in guerra dell’Inghilterra è oramai una teoria coltivata soltanto dai tedeschi ed in Italia dai socialisti ufficiali e dai neutralisti costituzionali, soli superstiti zelatori della un tempo acclamatissima teoria del materialismo storico. Un calcolo spinse, è vero, gli inglesi nel Paese di Fiandra; ma fu l’istesso calcolo che aveva spinto Elisabetta contro Filippo II, Guglielmo d’Orange contro Luigi XIV, Pitt contro Napoleone: il calcolo di chi preferiva di immolare subito vita e ricchezze pur di non correre in avvenire il pericolo di cadere vittima della potenza egemonica europea. Ma se questa è oramai verità incontroversa, quale è la ragione dell’intervento americano? Perché, contrariamente ai buoni consigli germanici, gli Stati Uniti non hanno seguitato a lucrare miliardi, rimanendo neutrali, e non hanno colto l’occasione per stendere le mani sul Canadà e sull’Australia, lasciando l’Africa e l’India alla Germania?
L’enigma è tanto più misterioso quando si pensi che, per venire in Europa, gli americani hanno dovuto far gitto di tutta una loro tradizione secolare di politica estera. Rimonta questa tradizione al famosissimo discorso di addio pronunciato nel 1796 da Washington. «La regola aurea della nostra condotta riguardo alle nazioni forestiere sia, pur estendendo con esse relazioni commerciali, di avere i minimi rapporti politici che sarà possibile. La nostra vera politica sta nel tenerci lontani da alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo straniero».
Se perciò il Wilson durò una fatica di quasi tre anni per persuadere gli americani a romper guerra con la Germania, fa d’uopo riconoscere che non era possibile offendere a cuor leggero una tradizione durata per centoventi anni. E se finalmente la tradizione fu rotta e gli Stati Uniti per la prima volta uscirono dal loro splendido secolare isolamento, ciò accadde perché il «teorico» presidente di oggi vide ergersi di nuovo sull’orizzonte un pericolo che da lungo tempo più non esisteva quando Washington formulava la teoria del «non intervento». Nel 1796 erano passati circa 40 anni da quando la pace tra Inghilterra e Francia aveva ridotto il Canadà allo stato di colonia inglese; e da circa 40 anni era cessata ogni ragione perché i coloni americani sentissero minacciata la loro libertà civile da una potenza militare straniera.
Rimasti per un secolo e mezzo senza nemici immediati, liberi di espandersi liberamente sulle immense pianure del far-west, che sempre più si dilungava verso l’occidente, gli Stati Uniti poterono illudersi di non avere nulla da spartire nelle contese della vecchia Europa.
Dal sogno dell’isolamento li scosse rudemente la diana di guerra del 1914. Forse, se a capo degli Stati Uniti si fosse trovato un uomo politico ordinario, gli americani non avrebbero visto nulla e si sarebbero contentati di trarre profitto dalla neutralità, vendendo ad ambedue i belligeranti, al più alto prezzo possibile, i frutti del lavoro americano.
Ma, per ventura somma di noi e sovratutto delle venture generazioni degli americani, a capo della repubblica c’era un veggente, un erede non della lettera ma dello spirito dell’azione dei suoi grandi predecessori. Egli vide che di nuovo gli Stati Uniti erano minacciati a tergo da un nemico, più formidabile di quello che da Quebec nella prima metà del secolo XVIII insidiava la vita delle tredici giovani colonie. Più formidabile, dico; perché il nemico d’un tempo era ambizioso, guerriero, ardito. Ma non era mosso da un’idea. Il nemico d’oggi è più pericoloso, perché è un’idea incarnata in un popolo convinto della propria superiorità spirituale su tutti gli altri popoli; l’idea che il popolo «eletto» abbia il diritto di vivere libero, di avere il suo posto al sole senza dipendere dalla volontà di nessun altro popolo e senza venire ad accordi ed a transazioni.
Poiché nel mondo moderno dell’economia divisa, degli scambi rapidi e frequenti la vita «libera» «autonoma» è una fallacia assurda, poiché ad ogni popolo, che non voglia sopraffare gli altri è giuocoforza venire con gli altri a transazioni e ad accordi, poiché l’«indipendenza» assoluta è un mito irrealizzabile, dovendosi dipendere dagli altri per avere ciò che in casa non si possiede e per dare altrui ciò che in casa si ha di troppo, così per deduzioni logiche ferree il popolo che vuole essere «libero», deve aspirare al dominio universale.
L’irrequietudine tedesca degli ultimi vent’anni, quel loro continuo lamentarsi, in mezzo ad inauditi trionfi economici, di non potere vivere «da sé» senza dipendere da altrui, quelli erano i contrassegni caratteristici dell’idea peculiare che della «libertà» si fanno i popoli eletti da Dio. Questa libertà non si acquista se non quando un popolo solo acquista a mano a mano il dominio del mondo e diventa bastevole a sé, libero assolutamente di muoversi perché, essendo il suo territorio esteso a tutto l’orbe, fuori di esso non esiste più nulla di cui si abbia bisogno e da cui perciò si sia dipendenti, che tolga, anche in minima parte, il fiato e limiti il posto al sole. È una terribile creatrice di guerre, l’idea della libertà illimitata e senza freni.
Wilson vide che bisognava soffocare l’idra rinascente. All’idea della libertà del popolo eletto egli e noi opponiamo l’idea della libertà che è vincolo, che è servitù, che prima di essere godimento, è sacrificio. Noi vogliamo essere liberi, ma vogliamo che anche gli altri siano liberi e perciò noi riconosciamo che è sorte comune degli uomini di essere servi gli uni degli altri. Nessun popolo eletto e tutti i popoli fratelli nella servitù degli umili riti della vita materiale e nelle gioie delle conquiste ideali.
Gli Stati Uniti combattono oggi la guerra per la libertà dell’Europa per non essere «costretti» a combattere fra cinquant’anni una guerra assai più dura e fiera contro la potenza che in Europa, senza il loro intervento, avrebbe forse ora conquistato l’egemonia. Mentre salvano noi dall’aggressione e dalla scomparsa del nostro tipo di civiltà, salvano sé medesimi da una lotta più cruenta e forse perduta. Ma combattono anche per i nemici. Contro uno di essi, il più forte ed il solo degno, essi e noi combattiamo una lotta d’idee, la quale finirà il giorno in cui anche i tedeschi si saranno persuasi che la libertà non è dominazione, ma è servizio. Servizio reciproco, ma servizio.
La guerra sarà vinta da noi quando i tedeschi si saranno persuasi che è un folle, un criminoso sogno il pretendere di essere sovranamente liberi; che fa d’uopo cercare la libertà che è compatibile con la libertà degli altri, il posto al sole che non ruba il posto che altri si è conquistato e vuole tenere per sé e dimostra, lottando, di meritare di tenere per sé.
La ferrea logica vuole che bisogna serrarsi uniti sotto la bandiera della libertà che è reciproco servizio. Noi non possiamo diventare veramente liberi se non guarentendo la uguale libertà degli altri. In difesa di questo principio sono scese sulla Marna e sul Piave le schiere americane ed in difesa di questo principio dobbiamo combattere pur noi, se vogliamo che i nostri fini di guerra non siano quelli stessi di sopraffazione per cui combattono tedeschi ed austriaci.