Corriere della Sera, 24 marzo 2024
Dante, sfida infinita. Un codice la riapre
«La sfida più complessa di tutte le filologie moderne». Così il dantista Paolo Trovato ha definito il tentativo di fare un’edizione critica della Commedia. Non ci sono confronti in altre letterature. Nessuna opera ha avuto una diffusione così ampia e complessa. La complicazione nasce anche dal fatto che non abbiamo autografi di mano dantesca. Il fortunato che trovasse una pagina, un rigo, una firma vergata da Dante, farebbe bingo. E poi c’è la quantità: se andate su danteonline, il sito che si avvale della consulenza scientifica della Società dantesca italiana, e cliccate sul link dei manoscritti, troverete un elenco di ben 827 codici che tramandano il poema, alcuni di fattura modesta, altri lussuosi a seconda del livello sociale del pubblico a cui erano destinati. Una mole spaventosa e per di più con contaminazioni notevoli. D’altra parte, si sa che le tre cantiche ebbero una diffusione immediata e probabilmente frazionata per gruppi di canti (dal 1314 l’Inferno, dal 1315 il Purgatorio, mentre il Paradiso entrò in circolazione subito dopo la morte dell’autore, nel 1321).
Nel 1965, settimo centenario della nascita di Dante e anno cruciale per gli studi, Gianfranco Folena paragonò la tradizione manoscritta della Commedia a un fiume che sin dalla sorgente contiene correnti rimescolate e confuse. Copisti ed editori, nei secoli, hanno contribuito a inquinare le acque magari in buonafede, nel tentativo di correggere delle lacune o di rimediare a delle incomprensioni, producendo nuovi errori, nuove incomprensioni e nuovi tentativi di «revisione», all’infinito. Uno di questi tentativi fu intrapreso da Boccaccio, che copiò di proprio pugno per ben tre volte il poema prendendo le mosse da un codice Vaticano, ma anche lui contaminando abbondantemente e aggiungendo sempre più sue congetture arbitrarie.
La più famosa edizione della Commedia, quella compiuta da Giorgio Petrocchi tra il 1965 e il 1967, prendeva in considerazione soltanto i circa trenta testimoni che precedono il 1355, noti con il nome collettivo di «antica vulgata», e divisi in due rami, quello settentrionale (il poema fu subito divulgato anche nel Nord Italia, dove Dante passò buona parte dell’esilio prima di morire a Ravenna) e quello centrale.
Ora, fuori da quella «antica vulgata», ma pur sempre significativo, alla tradizione della Commedia si aggiunge un nuovo manoscritto, che verrà venduto da Finarte (si spera a una biblioteca o a un centro di studi), a cui l’ha affidato la famiglia detentrice, erede di un funzionario di Stato collezionista di pregevoli materiali danteschi e defunto nei primi anni Sessanta. La scheda di presentazione, firmata da Fabio Massimo Bertolo, responsabile del dipartimento Manoscritti e autografi della casa d’aste, fissa cronologicamente la trascrizione del testo tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento secondo una prima expertise paleografica. L’importanza filologica del documento andrà poi valutata alla luce di un esame critico che ne verifichi il valore testuale, sulla base di un confronto con la tradizione nota.
Intanto però resta il fatto eccezionale che il codice, cartaceo (cm 40 x 27) e rilegato modernamente in marocchino naturale, contiene il poema nella sua forma quasi integrale per complessive 93 carte: le prime e le ultime due staccate dal volume e di mano poco più tarda; la carta 25 mancante in coincidenza dei versi 34-139 del canto XXIX e i versi 1-57 del XXX dell’Inferno. Il testo è disposto su due colonne di 42 righe con rubriche in rosso, capilettera in rosso moderatamente decorati all’inizio di ogni canto e con iniziali di terzina sporgenti. Il poema è seguito dai Capitoli in terza rima di Iacopo Alighieri, figlio di Dante, e Bosone Novello da Gubbio: sono gli stessi testi che si trovano talvolta accostati al poema, per esempio, in uno dei più pregevoli manoscritti danteschi, e cioè il codice Trivulziano 1080, accreditato a lungo come testimone privilegiato sul piano linguistico.
La scheda che presenta il codice segnala che il testo si accoda «con ragionevole certezza» al cosiddetto «gruppo del Cento», ricca porzione di codici della Commedia ritenuta inizialmente opera di un solo copista, Francesco di ser Nardo da Barberino, attivo a Firenze nella prima metà del Trecento, quando la città era protagonista del commercio di manoscritti. Francesco di ser Nardo fu forse il fondatore di una folta e fortunata officina scrittoria che avrebbe prodotto numerose copie del poema (i «Cento Danti», appunto, grazie ai quali si raccontava che il bottegaio «maritò non so quante sue figliuole»). Mentre la bottega disponeva di numerosi copisti (che magari si basavano su più esemplari per raffrontare e «migliorare» il testo), alla preziosa mano di Francesco si devono certamente alcuni esemplari (almeno sei), tra i quali il citato Trivulziano, copiato nel 1337.
Tornando al nostro manoscritto, se davvero rientrasse nel novero dei Cento, il suo interesse filologico sarebbe limitato, visto che riporterebbe varianti già note: ma non è questo il momento di azzardare ipotesi testuali. Resta la scoperta di un documento il cui valore supera di certo i due milioni di euro. L’eleganza della fattura (non portata a termine, visto che rimane bianco lo spazio di alcuni capilettera), la regolarità ben spaziata e ben allineata della grafia (dal tratto quasi preumanistico); la pulizia generale del manufatto, privo peraltro di postille e di note di possesso (a parte un appunto moderno che rimanda a una probabile provenienza inglese); il formato insolitamente ampio del volume: sono tutti elementi che fanno pensare alla commissione di una persona colta desiderosa di garantirsi un esemplare raffinato del poema, ma di non grandi disponibilità non essendo il codice pergamenaceo bensì cartaceo. Bertolo aggiunge alcune notazioni di carattere linguistico che assimilerebbero il codice all’area toscana, come del resto segnalò in una scheda degli anni Sessanta lo studioso Guido Vitali, che ebbe modo di visionarlo, avvicinandolo appunto ai Cento.
Si è detto dell’imaginazione del codice appena scoperto. L’aspetto grafico non è mai una faccenda secondaria, tanto meno quando si parla di opere dantesche. Anche in questa chiave si muove un saggio di Maria Luisa Meneghetti, filologa romanza e accademica dei Lincei, che apparirà sul nuovo numero della rivista «Critica del testo» intitolato Dante conteso. Il saggio riguarda una vexata quaestio molto delicata: la paternità della versione italiana del famoso Roman de la Rose, nota come il Fiore, poemetto composto di 232 sonetti, che Gianfranco Contini definì «attribuibile» al giovane Dante. Una questione su cui i dantisti sono divisi e l’un contro l’altro armati da diversi decenni. Ora, Meneghetti mette in dubbio quella attribuzione chiamando in causa l’impaginazione dell’unico manoscritto, conservato a Montpellier, che tramanda l’opera: la sorpresa è che quel codice, che comprende anche una copia del modello francese, non si attiene alla maniera tradizionale con cui venivano trascritti i sonetti in Italia. Rivela piuttosto aspetti tipici della mise en texte della narrativa in versi antico francese, riprendendo in particolare una fortunata forma metrica, la cosiddetta strophe d’Hélinand, che prende il nome dal primo che la utilizzò, tra il 1194 e il 1197, il monaco cistercense fiammingo Hélinand de Froidmont, autore di un’operetta intitolata Vers de la mort.
L’esame comprende la disposizione in pagina (su due colonne), la scansione delle strofe tutta in verticale (in genere i sonetti venivano invece disposti sulla pagina orizzontalmente a mo’ di prosa, con un punto metrico a segnare la separazione dei versi), l’alternanza cromatica delle iniziali, le simmetrie visive insieme alle somiglianze tematiche e di tono (satirico-narrativo) che accomunano il Fiore e le opere in strofa di Hélinand. Passaggio dopo passaggio, si arriva a una conclusione inattesa: l’ipotesi (più che un’ipotesi) che il copista del codice Montpellier sia un «funzionario di buon livello di una compagnia mercantile (…), un toscano, se non proprio un fiorentino, che nella Francia aveva trovato (...) la sua seconda patria e nella cultura, anche libraria, francese la sua cultura d’adozione». Di «formazione grafica d’Oltralpe del copista», parla anche il paleografo Sandro Bertelli nel saggio che segue quello di Meneghetti. Un’obiezione potrebbe essere: perché escludere che questo copista «francesizzante» avesse sotto gli occhi un’opera autenticamente dantesca?
La risposta si compone di nuove domande: perché mai il copista avrebbe dovuto disporre il testo secondo un criterio «francese» se l’originale (o l’antigrafo, cioè l’esemplare-modello) aveva la canonica impaginazione italiana? Senza negare altri dubbi su cui lo stesso Contini rimase evasivo: il Roman de la Rose non ebbe una circolazione italiana e se Dante, come pare, non si spinse mai in Francia (la segnalazione di un soggiorno parigino ipotizzato da Boccaccio non è attendibile), da dove gli sarebbe arrivata la copia del Roman da prendere a modello per la sua riscrittura? È molto più probabile, e tanto più alla luce delle nuove acquisizioni, che non solo il copista ma anche l’autore del Fiore sia un italiano di Francia, e non l’Alighieri.