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 2024  marzo 24 Domenica calendario

Articoli sulla strage di Mosca


Alessandro Gnocchi per Il Giornale (gli attentatori)
Tutti i network del mondo trasmettono, in queste ore, i primi filmati che ritrarrebbero l’arresto di quattro presunti attentatori coinvolti nella strage al Crocus City Hall di Krasnogorsk, vicino a Mosca, che ha causato oltre 150 morti e centinaia di feriti. In un video condiviso dai canali Telegram «Mash» e «Baza», considerati vicini ai servizi di sicurezza russi dell’Fsb, si vede un giovane uomo (...)
(...) interrogato per strada, con le mani legate dietro la schiena. Il sospettato sarebbe un 19enne fermato nella regione di Bryansk, vicino al confine con l’Ucraina. Stava scappando a bordo di un’auto bianca. Trascriviamo il breve dialogo nella traduzione che ne fa il sito Open. Militare, in piedi: «Cosa stavi facendo al Crocus?». Ragazzo, inginocchiato: «Sparavo». Militare: «A chi?». Ragazzo: «A delle persone». Uomo vestito di blu, con un telefonino in mano: «Per quale motivo?». Ragazzo: «Per soldi». L’ultima risposta è talmente aberrante da lasciare senza parole, ma c’è un dettaglio che colpisce come un maglio e costringe a interrogarsi. Il ragazzo, progressivamente, inizia a tremare. Prima un brivido. Poi un altro. Infine, la scossa diventa irrefrenabile. Il presunto killer, dunque, non avrebbe tremato con il fucile tra le mani, passando armato tra volti anonimi, come un demone che dispensa la morte a caso, per soldi. Ora invece confessa e trema come una foglia. La paura per la propria sorte supera quella per la sorte altrui. Ma non è solo viltà. Abbattere innocenti fa sentire onnipotenti i membri di un gruppo di mercenari o di fanatici musulmani. Poi, però, arriva il castigo e davanti al castigo gli assassini sono comunque in solitudine di fronte al proprio orrore e a una istituzione incarnata da uomini che vogliono fargliela pagare cara. Quel mercenario reo confesso forse non ci crede. Ma arriverà anche il giudizio divino. Lì le anime sono ancora più sole, e tremano in attesa della Giustizia.

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Ugo Tramballi per il Sole (il colpevole perfetto per il cremlino)

Nella storia degli attentati terroristici è difficile trovare una così rapida soluzione apparente del caso: già presi i quattro presunti assassini, fermate le presunte spalle. Indicati anche i mandanti dati più per certi che presunti: i quattro attentatori materiali sono stati bloccati sulla strada per l’Ucraina. Qualcuno li stava aspettando per portarli in salvo. Parola di Vladimir Putin.
«Idioti o suicidi», è stato il commento di un portavoce del governo di Kiev. Volendo credere a Mosca, i quattro responsabili stavano fuggendo verso un fronte di guerra: nella regione più affollata di militari, servizi d’intelligence e apparati di sicurezza russi dell’intero Paese.
Non erano passate 24 ore dall’eccidio di Mosca che i portavoce “informali” del regime, quelli mandati a commentare sui network internazionali, già diffondevano la versione dei fatti. I mandanti erano un’organizzazione fascista ucraina, i servizi segreti ucraini o lo stesso Volodymyr Zelensky: comunque gli ucraini.
Esisteva la lontana ipotesi dell’Isis, tutt’altro che scomparso da molti scacchieri d’instabilità internazionale. Mai preso in considerazione. No, era la risposta preparata, il venerdì di Ramadan i musulmani non combattono: falso; l’Isis non uccide, prende ostaggi: ugualmente falso, fanno l’una o l’altra cosa. Basterebbe chiedere all’alleato iraniano di Mosca che a gennaio a Kerman, aveva subito un attacco suicida dell’Isis. Teheran aveva subito accusato Usa e Israele, ma l’addebito era presto caduto.
Erano stati gli americani ad avvisare l’Iran dell’imminenza di un attentato. Ancora la Cia, il 7 marzo, aveva passato ai russi informazioni raccolte in Afghanistan: lo Stato Islamico-Khorasan (la stessa fazione dell’Isis responsabile degli attentati all’aeroporto di Kabul nei giorni del ritiro americano del 2021) stava per colpire Mosca. L’intelligence americana lo chiama “duty to warn”: quando hai notizia di possibili attentati terroristici contro i civili, hai il dovere d’informare anche il nemico.
La rapidità dell’apparente soluzione di questo caso solleva tre ipotesi: Mosca ha deciso di trasformare l’attentato dell’Isis in uno strumento della sua guerra all’Ucraina; informata dagli americani, ha lasciato che avvenisse, sempre pensando all’utile ucraino; i servizi russi sono i soli responsabili dell’attentato. È l’ipotesi più inverosimile, ma in guerra e in ogni momento critico della loro storia, i regimi russi non si sono mai fatti scrupolo di sacrificare le vite dei sudditi.
Capitata o cercata l’occasione, l’unica cosa certa dell’attentato è che servirà alla guerra russa all’Ucraina. A parte Matteo Salvini, Alexander Lukashenko e pochi altri, non tutti sono convinti che le elezioni presidenziali abbiano dimostrato la compattezza del consenso popolare per Putin. Un attentato così brutale nella capitale è uno strumento più efficace; riaffermata la sua presidenza, a una società civile ferita Putin potrebbe imporre una mobilitazione generale. Potrebbe anche sentirsi più libero di colpire obiettivi civili, servirsi di armi più potenti.
Posto che Vladimir Putin decida mai di prenderla in considerazione, l’ipotesi dell’attentato dello Stato Islamico rimane la più plausibile. Più rapidamente dei russi, l’altra sera l’Isis aveva diffuso la sua rivendicazione. Una nota breve, come quasi sempre fa lo Stato Islamico quasi per impedire che altri se ne assumano la responsabilità. La rivendicazione più dettagliata avviene qualche giorno dopo. Dal 2000, attentato a un teatro di Mosca, alla scuola di Beslan nel 2004, la Russia è stata diverse volte vittima del terrorismo islamico. Dal 2015 esiste nel Caucaso una fazione dell’Isis. Fino a oggi aveva compiuto solo attentati minori in Cecenia, Daghestan e altre repubbliche autonome russe.
Come molti altri Paesi, la Russia “cristiana” è stata sempre obiettivo degli islamisti per le due guerre in Cecenia e il sostegno militare al regime siriano di Bashar Assad. Anche l’alleanza con l’Iran sciita è blasfemia per l’Isis sunnita. Ma queste considerazioni sono irrilevanti, il colpevole è già stato trovato. Il solo dubbio è cosa accadrà ora in Ucraina.
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Maurizio molinari per Rep (il ritorno della Jihad)
La strage alla Crocus City Hall di Mosca svela che lo Stato Islamico (Isis) è vivo e vegeto, che Vladimir Putin ha sbagliato a sottovalutarlo e che la Jihad globale resta la più feroce minaccia collettiva alla comunità internazionale anche se il Cremlino continua a ritenere prioritaria l’aggressione dell’Ucraina.
L’Isis era stato dichiarato sconfitto nel 2019 al termine di una massiccia campagna militare da parte di una coalizione internazionale guidata da Usa, Russia, Paesi europei e musulmani che portò ad espugnare la capitale Raqqa, liberare i territori che occupava in Siria ed Iraq, ed eliminare il suo sanguinario leader, Abu Bakr al Baghdadi. Da quel momento gli stessi Paesi che avevano sconfitto Isis lo hanno derubricato a uno dei tanti gruppi jihadisti che infestano il mondo dell’Islam, dedicando alla lotta contro di lui risorse e impegno in rapida diminuzione. Ma il progetto di Isis della creazione di un Califfato globale non è affatto scomparso, si è solo trasferito: spostando la sua culla da “Bilad al-Sham”, il Medio Oriente, al “Khorasan”, ovvero l’Afghanistan e i territori adiacenti in Pakistan, Iran, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kyrgyzistan e Kazakhstan. L’uso della terminologia geografica che evoca la genesi dell’Islam serve a mobilitare e reclutare i seguaci più fondamentalisti attorno al miraggio di Hassan el-Banna, il teologo egiziano che reagì alla decisione del leader turco Ataturk di smantellare il Califfato dopo la fine della Prima Guerra Mondiale lanciando la sfida di ricostruirlo al fine di sconfiggere la modernità occidentale causa di ogni male.
Il ritiro della Nato da Kabul e il ritorno al potere dei talebani hanno riportato l’Afghanistan nella condizione di terra ove i jihadisti possono operare e la “Provincia del Khorasan” di Isis – fondata nel 2015 da un gruppo di talebani pakistani – ha così trovato una nuova piattaforma da cui operare, anche contro gli stessi mullah di Kabul, nell’indifferenza dei più.
L’attentato di gennaio a Kerman, in Iran, ed ora quello contro il concerto a Mosca ci dicono dunque che Isis non è affatto sconfitto ma – come spesso avviene per i gruppi jihadisti – ha solo cambiato pelle al fine di continuare a colpire, perseguendo un obiettivo secolare. Ed è interessante a tale riguardo come nella rivendicazione della strage di venerdì Isis parli di attacchi “contro i cristiani” rilanciando la sfida jihadista alla Russia proprio sul terreno che a Putin è più caro: i valori fondamentali del cristianesimo. È una maniera per fare appello alla notte della Storia, al fine di innescare un domino di violenze contro Mosca da parte dei gruppi terroristi islamici dell’Asia Centrale.
Si tratta di una sfida brutale che ha colto di sorpresa Putin all’indomani del plebiscito che lo ha confermato al Cremlino e che chiama in causa la scelta strategica da lui fatta dopo la caduta di Raqqa: archiviare la fase di cooperazione anti-jihadista con l’Occidente, iniziata a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001 di Al Qaeda contro gli Stati Uniti, per scegliere invece la sfida aperta alle democrazie al fine di modificare a proprio vantaggio l’equilibrio disicurezza in Medio Oriente, nel Mediterraneo, in Africa ed anche in Europa. È la convinzione di aver battuto Isis, di aver domato i jihadisti lungo i propri confini asiatici, che ha spinto Putin a dedicarsi al confronto aperto contro Usa e Ue, portandolo ad aggredire l’Ucraina il 24 febbraio 2022.
Ma l’assalto di Isis al concerto di Mosca svela che Putin ha commesso un grave errore – non degno di un abile giocatore di scacchi – nel ritenere la Jihad un mostro oramai domato.
Ed a ben vedere a confermare l’entità dell’errore compiuto ci sono le non rare complicità operative fra i mercenari della Brigata Wagner ed i gruppi jihadisti in Sahel in chiave antioccidentale così come la scelta del Cremlino di schierarsi con Hamas dopo il pogrom del 7 ottobre scorso contro i villaggi israeliani nel Negev Occidentale. Appena due giorni fa Mosca ha rifiutato di approvare all’Onu la risoluzione Usa sul cessate il fuoco a Gaza per non condannare esplicitamente le violenze commesse da Hamas. Insomma, Putin ha creduto che Isis fosse sconfitta e che i gruppi jihadisti – dal Sahel a Gaza, fino al Mar Rosso – potessero diventare pedine del suo gioco strategico contro le democrazie dell’Occidente ma adesso deve fare i conti con una Jihad globale che – come Marco Minniti spiega nell’intervista che pubblichiamo su queste pagine – rialza la testa su più fronti e vede Isis mettere a segno un atto eclatante contro Mosca per riconquistare il centro del palcoscenico del terrore. Anche perché se oggi è il Cremlino la grande potenza percepita come più influente dal Nord Africa all’Afghanistan è contro di lei che i jihadisti misurano il loro terrore.
Tutto ciò è un evidente campanello d’allarme per le democrazie occidentali: immaginare che Isis sia in declino è l’abbaglio più grande così come pensare di venire a qualsiasi tipo di patti con Stati, gruppi o individui portatori del terrorismo jihadista significa mettere a rischio la nostra sicurezza. Come osserva Dina Porat, accademica dell’ateneo di Tel Aviv, “l’errore più grave commesso da Israele prima del 7 ottobre è stato immaginare di poter convivere con Hamas lungo i propri confini”. Perché la Jihad resta la maggiore minaccia alla sicurezza collettiva dell’intera comunità internazionale, a cominciare dai Paesi arabi e musulmani che finora hanno pagato a questi terroristi il più alto prezzo di sangue. Saranno i prossimi giorni e settimane a dirci se Putin comprenderà che l’Occidente resta il suo migliore alleato contro i jihadisti – come, d’altra parte, conferma l’allarme che Washington gli ha dato a inizio mese sull’attentato Isis in arrivo – ma intanto la decisione del Cremlino di accusare l’Ucraina di complicità con i terroristi della Crocus City Hall va in tutt’altra direzione: sfruttare la strage per spingere la Russia a moltiplicare risorse e impegno nella guerra per sconfiggere Kiev. È una scelta tattica che conferma la volontà di Putin di vincere con le armi il conflitto ucraino ma non risolve la vulnerabilità russa al ritorno della Jihad.

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Gianluca Di Feo per Rep (dove nascono gli attentati)Oltre alla mobilitazione in nome di Gaza, che continua a crescere in tutte le comunità musulmane, c’è un altro elemento che preoccupa gli investigatori di ogni Paese. Si stanno infatti verificando nello scenario internazionale una serie di condizioni che hanno permesso in passato l’organizzazione degli attentati più clamorosi e sanguinosi, dalle Torri Gemelle al Bataclan. Per addestrare i combattenti, finanziare i loro piani, procurare documenti e armi, le sigle jihadiste hanno bisogno infatti di grandi santuari dove sentirsi al sicuro da spie e sorveglianze.
I timori più insistenti riguardano proprio l’Afghanistan, abbandonato dalle truppe Nato nel ferragosto 2021. Nel Nord-Est ci sono intere province dominate dall’Isis-K, la formazione che ha rivendicato il massacro di Mosca: K sta per Khorasan, l’antico nome della regione che comprende pure parte di Turkmenistan e Tajikistan. Nelle loro basi vengono istruiti volontari provenienti dalle repubbliche asiatiche dell’ex Urss – pure gli uomini arrestati per la strage in Russia sono tajiki – e si formano schiere di kamikaze, che spesso vanno a colpire a Kabul e nelle zone controllate dai talebani, con cui sono in lotta sin da prima della ritirata delle forze occidentali. Anche i tentativi americani di debellare questa falange orientale dello Stato Islamico sono stati inutili: nel 2017 il presidente Trump fece persino lanciare su una delle loro vallate la “Madre di tutte le bombe”, l’ordigno da 10 tonnellate con potenza inferiore solo alle testate atomiche. Adesso l’Isis-K non si deve più preoccupare di ricognizioni e raid dal cielo: può dedicarsi a mettere a punto i suoi disegni, progettando assalti all’estero. Come la carneficina in Iran – gli sciiti sono i nemici contro cui il Califfato ha combattuto in Siria – con gli ordigni esplosi tra la folla durante la commemorazione del generale Qassem Soleimani.
Nel resto dell’Afghanistan, i talebani sono tornati al passato e hanno ripreso a ospitare gruppi salafiti di ogni nazionalità. Lo dimostra l’uccisione a Kabul nell’agosto 2022 di Ayman al-Zawahiri, l’alter ego di Osama Bin Laden nella creazione di Al Qaeda, assassinato da un drone della Cia. L’anziano medico egiziano aveva ripreso a vivere lì dove la saga jihadista era cominciata, contando sulla protezione dei vecchi amici che lo avevano aiutato a preparare l’attacco dell’11 Settembre 2001. E così fanno altri movimenti, come il Tehrik-e-Taliban Pakistan: seigiorni fa i caccia di Islamabad hanno distrutto uno dei loro accampamenti. Foto dei satelliti e analisi delle comunicazioni fanno ritenere che pure la ragnatela qaedista stia rinascendo dalla cenere,come una rediviva Fenicepronta a seminare morte.
Ma c’è un’altra terra di nessuno al centro dell’attenzione di tutte le intelligence: il Sahel. Uno dopo l’altro, i governi golpisti di Mali, Burkina Faso e Niger hanno espulso i militari francesi ed europei che gestivano le operazioni anti-terrorismo: non ci sono più soldati, elicotteri e jet a vigilare contro l’ondata di sigle fondamentaliste che continua a dilagare. Il putsch a Niamey da agosto ha ridotto pure i voli dei droni americani dall’aeroporto di Agadez e pochi giorni fa i generali nigerini hanno rotto con gli Stati Uniti, ordinando la fine di ogni attività. Quell’installazione – costata 110 milioni e completata solo tre anni fa – è l’unica rimasta al Pentagono tra l’equatore e il Mediterraneo: ora gli Usa rischiano di restare senza occhi sul nuovo focolaio del jihadismo. «Se non possiamo vedere, non possiamo capire – ha dichiarato il generale Michael Langley, comandante di Africom –. Se perdiamo la posizione nel Sahel, questo ridurrà la nostra capacità di vigilare e dare l’allarme, con conseguenzepure per la sicurezza degliStates».
Il buco nero che si sta aprendo in Niger fa ancora più paura di quello afghano: è il crocevia della migrazione verso l’Europa, incentivata dalla depenalizzazione del trasporto di stranieri decisa dalla giunta golpista. L’Isis vuole riprendere a colpire nelle città del vecchio continente, come aveva fatto fino al 2018, quando poteva contare sulle basi del Califfato in Siria e in Iraq. Nell’ultimo anno sono stati arrestati uomini del-l’Isis K – quasi sempre rifugiati afghani – che progettavano attentati in Germania, Olanda, Austria e Svezia. Lo scorso 4 gennaio il portavoce di tutto lo Stato Islamico, Abu Hudhaifa al-Ansari, ha lanciato una chiamata alle armi contro ebrei e «crociati cristiani»: «Uccideteli dovunque li trovate. Aggrediteli su tutte le strade d’America e d’Europa per vendicare i musulmani di Palestina, Iraq e Siria. Investiteli con le auto. Attaccateli e sgozzateli; fategli sapere che i crimini commessi nei Paesi islamici saranno puniti a Washington, Parigi, Londra e Roma». Gli appelli alla violenza si sono intensificati con l’inizio del Ramadan: «Sarà il mese della vittoria», ha promesso l’ultimo bollettino della loro rivista diffusa online.
L’Italia compare sempre più spesso nei loro proclami. E non si parla più di Roma in senso simbolico per indicare la cristianità, come avveniva nei sermoni del califfo al-Baghdadi, ma come bersaglio concreto. Nelle intercettazioni dell’indagine sui tre palestinesi arrestati due settimane fa all’Aquila, dove vivevano da anni come rifugiati politici, sono evocati assalti da compiere in Israele e in Cisgiordania e pure armi – ha scritto il giudice – «da utilizzare sul territorio italiano».
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Fabio Tonacci per Rep (intevista a Podolyak)
«Lo dico e lo ripeto, l’Ucraina non ha niente a che fare con l’attacco terroristico a Mosca. Perché siamo una democrazia, noi…». Mykhailo Podolyak, uno dei consiglieri più ascoltati dal presidente Zelensky, pronuncia questa frase quattro volte nel corso dell’intervista conRepubblica. A riprova che la priorità per il governo di Kiev, ora, è disinnescare il tentativo di Putin di trascinare l’Ucraina nella strage al Crocus City Hall e strumentalizzare l’attentato per spingere sul pedale dell’escalation. «Putin sta seguendo una precisa strategia», sostiene Podolyak.
Quale?
«Prima di tutto vuole distogliere l’attenzione dalle recenti azioni massicce contro il nostro Paese. Il 22 marzo, voglio ricordarlo a tutti, ha fatto lanciare missili sulla centrale idroelettrica Dniprohes a Zaprizhzhia. Una diga. L’ennesimo atto criminale davanti agli occhi del mondo. E poi, è chiaro che insistere sulla cosiddetta “pista ucraina” gli serve per spiegare ai suoi cittadini perché d’ora in avanti parlerà esplicitamente di guerra e non più di operazione militare speciale. Il cambio di retorica, anticipato dalle dichiarazioni del suo portavoce Dmitrij Peskov, si è reso necessario per giustificare la nuova e più vasta mobilitazione nonché la crescente militarizzazione dell’economia russa».
Come fate ad essere certi che nessuno, in Ucraina, abbia aiutato anche solo logisticamente il commando dell’Isis-K?
«Perché il mio Paese fa parte della coalizione delle democrazie.
Istituzioni e apparati ucraini ripudiano il metodo terroristico. E non è affatto vero, come afferma invece Putin, che i terroristi dopo la strage stessero venendo qui. Siamo uno stato in guerra, ai confini ci sono soldati e forze speciali ovunque, su entrambi i lati. È impossibile attraversarlo, oltretutto armati e a bordo di un’automobile già segnalata e ricercata dai servizi segreti»
Sono stati catturati nella regione di Bryansk. Dove stavano andando allora?
«In Bielorussia. Perché tra Russia e Bielorussia non c’è un vero confine, potevano riparare lì per nascondersi e riorganizzarsi».
Gli Stati Uniti avevano avvertito l’intelligence russa di possibili attacchi tipo quello avvenuto di venerdì, ma Mosca non ci ha voluto credere. Che idea si è fatto?
«Che ignorare l’allarme può rientrare in una strategia che punta a creare le condizioni per poi incolpare l’Ucraina. Putin infatti rispose dicendo che era una provocazione e che in realtà era tutto era sotto controllo».
Poi però è avvenuta la tragedia.
Qual è la vostra analisi?
«I terroristi hanno agito in ambienti chiusi e hanno utilizzato mezzi di trasporto. Sono passati tra la folla senza essere controllati. Per oltre un’ora e mezzo hanno sparato senza che la polizia intervenisse. Infine hanno lasciato con calma il Crocus o sulla stessa macchina con la quale erano arrivati. È strano che le agenzie di sicurezza russe non siano state in grado di fermarli. Ciò indica che la Russia non è pronta a rispondere a eventi del genere, perché è concentrata solo sulla guerra. Da qui la volontà di Putin di collegare la strage all’Ucraina per attivare la propaganda anti-ucraina, ma i fatti dimostrano che è stata commessa da cittadini della Federazione che appartengono a gruppi radicali islamici».
In realtà almeno due hanno passaporto del Tagikistan.
«L’identificazione non è ancora certa. Noi non abbiamo dubbi che siano della Federazione russa».
Ha visto il video di Danilov, il segretario del Consiglio di sicurezza ucraino, diffuso su canali telegram e trasmesso da alcuni media?
«Sì, un deepfake totale. Danilov non ha ammesso alcun coinvolgimento.
La Russia produce filmati con le più moderne tecnologie per la propria propaganda, non dovete cascarci».
Vi aspettate che Putin possa utilizzare l’attentato per
un’escalation in Ucraina?
«La Russia è la Russia. Non sta vincendo sul campo, quindi cerca di fare pressione su di noi e su altri Paesi con il terrorismo psicologico. Una escalation in questo senso, sì, ci sarà».
A cosa si riferisce?
«Può essere escalation retorica, di retorica propagandistica. Tenterà di influenzare i nostri partner affinché sospendano gli aiuti e facciano capitolare l’Ucraina. Per quanto riguarda l’uso dell’arma nucleare, non so, mi pare un po’ strano che se il tuo paese subisce un attacco terroristico con cui un altro paese non ha nulla a che fare, poi ci si metta a discutere di mezzi di risposta così.
Dopotutto, quella atomica è un’arma di deterrenza. E mi sembra che la comunità internazionale sia ormai consapevole che con il presidente russo non si può parlare seriamente di niente».
Qual è stata la reazione nei palazzi del potere di Kiev all’attacco terroristico?
«L’Ucraina condanna sempre qualsiasi manifestazione terroristica.
E però per noi è altrettanto importante che il mondo non dimentichi ciò che la Russia ha fatto a a Kharkiv, Zaporizhzhia, Dnipro, Kryvyi Rih, alla vigilia dell’assalto al teatro. La Russia ogni giorno compie atti terroristici contro di noi. Dopo che Putin è stato confermato dittatore con le cosiddette elezioni russe, ha dato l’ordine di sganciare bombe aeree guidate con la massima intensità sulle nostre città e sulla popolazione. La regione di Sumy è stata la più colpita. Perciò vogliamo che la comunità internazionale non se ne dimentichi».
Dai recenti vertici europei si è capito che l’Ue ha alzato il livello di allerta nei confronti della minaccia posta da Putin. A Kiev che lettura ne avete dato ?
«Abbiamo sentito dichiarazioni importanti di Macron, Scholz, Von der Leyen, Frederiksen e Meloni. C’è un cambio di retorica e una presa di coscienza, è un bene. Ma la comunità europea ha reagito alle elezioni farsa in Russia con troppa calma. E quando Putin vede reazioni timide, si sente in diritto di comportarsi in modo ancor più aggressivo».
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Paolo Mastrolilli per Rep (l’America)
NEW YORK – «L’Isis è un comune nemico terroristico che deve essere sconfitto ovunque», ma proprio per questo non va mescolato strumentalmente alla guerra in Ucraina, che resta un’invasione illegale e ingiustificata. È il messaggio che la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha inviato ieri alla Russia, condannando l’attacco e facendo le condoglianze per le vittime civili innocenti, ma tenendolo separato da Kiev.
«L’Isis Khorasan conserva capacità e volontà di attaccare gli Stati Uniti e gli interessi occidentali all’estero, nel giro di sei mesi e con poco o alcun preavviso». Solo giovedì, parlando alla Camera, il generale Michael Kurilla aveva lanciato questo allarme. Il capo del Central Command, che gestisce le operazioni del Pentagono in Medio Oriente, non era entrato nei dettagli dell’intelligence su cui basava la sua allerta, ma ora sappiamo con certezza che pochi giorni prima lo stesso avvertimento specifico era stato consegnato dalla Cia a Mosca. L’ambasciata Usa l’aveva reso pubblico, aggiungendo che l’obiettivo poteva essere un concerto. Putin aveva scelto di ignorarlo e usarlo in pubblico per accusare gli Stati Uniti di voler “intimidire e destabilizzare la nostra società”. Ora sappiamo come stavano davvero le cose, nonostante il capo del Cremlino cerchi falsamente di trascinare l’Ucraina in questa tragedia, e sappiamo che l’allarme riguarda anche noi, perché secondo l’intelligence la mira è puntata su tutti gli interessi occidentali all’estero.
Isis Khorasan è il ramo afghano dello Stato islamico, tristemente noto in America perché durante il ritiro dall’Afghanistan aveva condotto l’attentato all’aeroporto di Kabul in cui erano morti 13 soldati Usa. Lasciando il Paese l’intelligence ha perso alcune capacità di seguire il gruppo terroristico, ma l’attenzione resta alta, anche da parte dei colleghi europei, che secondo ilNew York Times hanno scoperto e debellato negli ultimi mesi diversi tentativi di colpire il Vecchio continente.
Per la sua matrice sunnita, l’Isis- K è nemico dell’Iran sciita. Infatti a gennaio aveva attaccato la processione a Kerman per ricordare il generale Qassim Suleimani, uccidendo 84 persone. Il capo dei pasdaran era stato eliminato dagli americani durante l’amministrazione Trump, ma proprio la Cia aveva informato i colleghi di Teheran del rischio attentato. Questo perché i servizi americani hanno il “duty to warn”, dovere di informare tutti, anche i nemici, se scoprono complotti terroristici. Non sappiamo se aldilà delle critiche pubbliche di Putin, l’intelligence di Mosca abbia preso sul serio l’avvertimento e agito. Di certo però questo esclude il coinvolgimento dell’Ucraina, e apre la porta ad un clima di instabilità continua per il rischio di altri attacchi. L’Isis- K infatti rimprovera a Putin la guerra contro l’Islam, cominciata dall’invasione sovietica dell’Afghanistan. Anche l’Europa è nel mirino e tutti dovrebbero collaborare all’interesse comune di neutralizzare questa minaccia, lasciando invece fuori l’Ucraina, che resta teatro di un’invasione illegale. A meno che Putin rinunci ad aggredirla, per concentrarsi sul vero nemico.
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Daniele Raineri per Rep (il capo di Jihadisti)
Lo Stato islamico in Afghanistan è l’amalgama di molte fazioni che si sono riconosciute nella stessa idea estremista, talebani troppo radicali per andare al governo, veterani delle repubbliche centroasiatiche, avanzi di altri gruppi pachistani, ma il trentenne leader Shahab al Muhajir viene da una sottofazione particolare: la facoltà di Ingegneria di Kabul, quindi nella città che per vent’anni è stata la più occidentale di tutto l’Afghanistan. Al Politecnico di Kabulè cresciuto un gruppo clandestino di seguaci dello Stato islamico che considerava i talebani troppo morbidi e che poi a partire dal 2020 ha occupato le posizioni centrali nello Stato islamico afghano e lo ha reso il più efficiente – al momento – nel lanciare operazioni all’estero. Shahab al Muhajir è un inganno fin dal nome, al Muhajir in arabo vuol dire il Migrante per dare l’impressione che fosse un leader non afghano venuto da fuori – ma così non è. Vero nome Sanaullah Ghafari, trentun’anni, è stato nominato dalla leadership centrale dello Stato islamico – quindi dal Consiglio lontano formato soprattutto da iracheni e siriani – e per ora detiene il record di longevità da leader del gruppo: i suoi predecessori in Afghanistan sono stati eliminati in sequenza rapida dai droni americani, quattro in due anni, ma lui resiste da quasi quattro anni (c’è una notizia sulla sua presunta morte a giugno 2023, mai confermata e quando si parla di leader jihadisti le presunte morti sono numerose).Per questa longevità, Sanaullah si affida a un protocollo rigoroso di sicurezza, non registra messaggi audio e tantomeno video, non emette mai comunicati e non cede mai alle tentazioni della vanità: si comporta come se non esistesse e per lui parlano le operazioni delgruppo. È consapevole che gli americani conducono una massiccia campagna di sorveglianza elettronica sull’Afghanistan. Quando i suoi vecchi documenti sono stati trovati, si è scoperto che aveva anche un tesserino da militare, che probabilmente ha usato per anni per passare attraverso i posti di blocco. È cresciuto tra i talebani, anzi nella fazione più agguerrita dei talebani, la rete Haqqani, che ha organizzato decine di attentati devastanti dentro Kabul quando c’erano i contingenti militari e diplomatici internazionali. Poi si è staccato e si è unito allo Stato islamico perché considerava i suoi ex compagni troppo miti con la minoranza sciita che lui invece vuole sterminare, troppo ancorati a idee nazionalistiche – creare un Emirato afghano e non un Califfato globale – e troppo compromessi con organizzazioni infedeli, vedi i servizi segreti del Pakistan. Se è ancora vivo, perché anche la sua morte potrebbe essere un segreto, l’Ingegnere è diventato il motore immobile delle operazioni più letali dello Stato islamico. Gli Stati Uniti hanno messo una taglia da dieci milioni di dollari sulla sua testa.
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Rosalba Castelletti per Rep (le accuse a Kiev)Vladimir Putin non ama le reazioni a caldo. Vuole tempo. Per elaborare le sue strategie e servire le sue vendette su un piatto freddo. Ieri ci ha messo circa 19 ore per parlare alla nazione dopo il più sanguinoso attacco terroristico degli ultimi vent’anni: l’assalto alla Crocus City Hall nei pressi di Mosca che ha provocato almeno 133 morti e oltre 120 feriti. Non ha additato responsabili. Tanto meno ha citato la rivendicazione del-l’Isis. Ma ha fatto accenni che puntano verso una direzione precisa. Innanzitutto, ha rilanciato la versione dei servizi di sicurezza Fsb dicendo che «tutti e quattro gli autori» dell’attacco erano stati arrestati mentre «si dirigevano verso l’Ucraina dov’era stata preparata una “finestra” per consentire loro di attraversare il confine». Promettendo loro «il destino poco invidiabile della punizione e dell’oblio», Putin ha poi definito gli attentatori non solo «terroristi» e «assassini», ma anche «non umani»,neljud, parola che negli ultimi due anni è stata più volte usata per indicare gli ucraini. E infine ha equiparato i «criminali» ai «nazisti che compivano massacri nei territori occupati». Paragone che ha nuovamente evocato l’Ucraina che ha promesso di “denazificare” quando due anni fa ha lanciato la sua cosiddetta Operazione militare speciale. «Tutti gli autori, gli organizzatori e i clienti di questo crimine subiranno una punizione giusta e inevitabile. Chiunque siano, chiunque li guidi», ha poi concluso. Parole che fanno pensare che il Cremlino voglia lasciare tutte le piste aperte, ma che intanto abbia voluto calare sul tavolo la carta ucraina per poterla giocare all’occorrenza inasprendo i raid o colpendo la dirigenza del Paese, come suggerito venerdì da Dmitrij Medvedev.
Se mai dovesse servire, l’Fsb riuscirebbe a far dire ai catturati quello che vuole, come dimostra il video diffuso sui social di un attentatore a cui cercano di far ingoiare l’orecchio che gli hanno appena mozzato. L’amministrazione presidenziale, scrive il media Meduza, avrebbe intanto incaricato i media statali di enfatizzare la possibile “pista ucraina”. Non che ce ne fosse bisogno. Sin dalle prime ore, i propagandisti e i cosiddetti “blogger Z” avevano puntato il dito contro Kiev, a partire dal “corrispondente militare” diKomsomolskaja Pravda Aleksandr Kots. Anche diversi politici hanno incolpato Kiev. Il senatore Viktor Bondarev ha parlato di «sabotaggio ucraino» e il capo della Comissione Difesa della Duma, Andre Kartapolov, ha definito «Ucraina e suoi sostenitori» «i principali soggetti coinvolti». La capa diRt, ex Russia Today,Margarita Simonjan, ha persino tirato in ballo l’Occidente. «Non è l’Isis. Gli artisti sono stati selezionati inmodo tale da poter convincere la stupida comunità mondiale che si tratto dell’Isis... Sono le creste». Ikhokhly, altra definizione dispregiativa degli ucraini. «E il fatto che proprio ieri, ancor prima degli arresti, i servizi segreti occidentali abbiano cominciato a dire che si trattasse dell’Isis, è ciò che ha dato fuoco al cappello del ladro», ha continuato riferendosi a un proverbio russo che vuol dire “Chi si scusa si accusa”. Ieri sera i notiziari si sono intanto datida fare per obbedire alla direttiva.
Pervyj Kanal, il “Primo canale”, ha mostrato i sospetti attentatori, col volto insanguinato, e diverse clip degli interrogatori, senza però mai citare la nazionalità dei presunti attentatori. E gli investigatori si sono limitati a dire che non erano russi.
È stato il deputato Aleksandr Khinstein a precisare che i sospettati provenissero dal Tagikistan, ex Repubblica sovietica nell’Asia centrale a maggioranza musulmana confinante con l’Afghanistan, dove è attivo lo Stato islamico. Le autorità, però, sembrano per il momento voler sminuire la pista islamista e centroasiatica, probabilmente per il timore di approfondire spaccature in un Paese multietnico e multireligioso dove i musulmani, secondo alcune stime, rappresentano un settimo della popolazione. «Il dovere comune dei russi ora è di stare insieme, spalla a spalla. Nessuno potrà spargere i velenosi semi della discordia e del panico nella nostra società multietnica», ha detto non a caso Putin lanciando persino un forzato appello alla comunità internazionale a «condividere gli sforzi per combattere il nemico comune».
E se in Ucraina si teme “un’escalation della violenza”, come paventato dal premier polacco Donald Tusk, in patria ci si aspetta che l’attacco venga strumentalizzato per l’ennesimo inasprimento della repressione. C’è già chi ha invocato che venga ripristinata la pena di morte. Da Medvedev che ha auspicato «le esecuzioni dei terroristi e la repressione contro le loro famiglie» al leader del partito Russia Giusta, Sergej Mironov, che ha augurato la pena capitale ai «“non umani” che commettono atti terroristici». Il capo del partito Russia Unita presso la Duma, Vladimir Vasiliev, ha detto che i deputati prenderanno «una decisione che soddisferà gli umori e le aspettative della nostra società» sull’argomento, benché il senatore Andrej Klishas abbia ricordato che il Parlamento non può rovesciare la sentenza della Corte costituzionale che nel 1997 ha imposto la moratoria sulla pena capitale.
Resta però l’imbarazzo di un Paese che, come ha osservato l’avvocata Anastasia Burakova, proclama leggi sempre più repressive col pretesto della «garanzia della sicurezza e della lotta contro alcuni “nemici esterni”», ma non è riuscito a prevenire la carneficina al Crocus nonostante l’allerta terrorismo diramato dagli Stati Uniti il 7 marzo che Putin anzi aveva liquidato come «provocatozione» per «intimidire e destabilizzare la società» russa. «Sicurezza delle frontiere, sistemi di difesa aerea, prevenzione di attacchi terroristici, sistemi di riconoscimento facciale: tutto risulta essere un villaggio Potjomkin», ha concluso Burakova, osservando che però nel 2024 non c’è nessuno che possa chiamare in causa Putin e chiedergli conto dell’inutilità di metal detector, videocamere e pattuglie di agenti. «I deputati sono controllati al 100%, non ci sono vere elezioni, i media indipendenti sono bloccati e dichiarati “indesiderabili”». Intanto innocenti muoiono alla periferia della militarizzata capitale.***
Irene Soave peril Cds (le vittime)
C’è chi è morto per i proiettili, chi bruciato vivo, chi calpestato dalla folla, chi soffocato. Una sessantina sono in terapia intensiva, 143 i morti. Dei tre bambini uccisi si sa, per ora, che sono stati trovati in bagno, stretti alle loro mamme (così Baza, canale Telegram legato ai servizi segreti). I cadaveri è facile contarli, e ieri le forze di polizia continuavano a trovarne – ventotto ammassati in un bagno, quattordici accalcati su una scala – ma i loro nomi le forze dell’ordine li vanno confermando uno a uno. La vittima più anziana aveva settant’anni, il più piccino otto. Quasi tutti venivano dall’hinterland moscovita: Krasnogorsk, Khimki e dintorni. Ma c’era anche chi era arrivato da più lontano. Da Orenburg, negli Urali, i coniugi Igor e Anna Figurin, giornalisti. Sono morti entrambi; con loro al concerto c’era la figlia Zlata, 16 anni, la cui morte non è confermata e il cui nome significa «ragazza d’oro».
«Era proprio d’oro», piange lo zio Nikolaj col giornalista del sito Meduza che lo ha intervistato. «Ero tornato dalla guerra in Ucraina ferito. Lei mi diceva “Zio Kolja, studierò medicina per curarti”». Al concerto dei Picnic, band-amarcord che ha attirato molti cinquantenni perché già in voga ai tempi di Breznev, erano stati invitati da parenti; sono tutti vivi, la famiglia Figurin cancellata. «Non nascere bello o ricco, nasci fortunato», recita uno dei molti proverbi russi su vita e destino.
Ha azzeccato l’uscita giusta, per esempio, Rutger Garecht, il giovane vincitore di Golos, versione russa di The Voice. Aveva portato al concerto la madre Larissa. Non erano mai stati al Crocus e non trovavano il guardaroba: perdono tempo a cercarlo e così un addetto li avverte dei terroristi e li fa scappare.
I sopravvissuti
Evgenia è rimasta a lungo coperta dai cadaveri degli altri, così si è salvata
Evgenia, figlia dei cosmonauti Valery Ryumin e Elena Kondakova, ha anche lei un destino eccezionale: un video la ritrae tra un gruppo di persone che cadranno per una raffica di proiettili. Caduta anche lei, ma illesa, è rimasta a lungo coperta dai cadaveri degli altri. Si è salvata così.
«Non nascere bello o ricco». È morta a 42 anni invece l’ex reginetta di bellezza Ekaterina Novoselova, Miss Tver 2001 e ancora bellissima. Pavel Okishev e la moglie Irina, di Kirov: lui avrebbe a breve compiuto 35 anni. Nikolaj e Svetlana, una coppia divisa dai terroristi. Lui le aveva regalato il biglietto per i Picnic per l’8 marzo. Lei è morta, lui gravissimo. Un’altra coppia ancora, i volontari «Amleto» e «Cattivona»: li soprannominavano così alla Liza Alert, gruppo che cerca persone scomparse. Oleg Pavlovsky, lui, e Tatyana Abdulova, lei, da Ulianovsk.
Un padre, Aleksander Baklemyshev, venuto da Chelyabinsk, negli Urali, per la sua band preferita: ha fatto a tempo a mandare al figlio Maksim un video dell’attacco. Sovcombank, Sberbank, Uralsib, Tinkoff, le banche sospendono i debiti dei morti. In loro onore i moscoviti portano peluches e fiori. Ma la lista delle loro storie si allunga ancora.
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Marco Imarisio per il Cds (il commando)
«Faremo sapere». Ancora ieri mattina, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov rispondeva in modo lapidario alla domanda del quotidiano Izvestia su un intervento pubblico di Vladimir Putin. All’una di notte di venerdì, il giorno dell’attentato, l’agenzia di Stato Ria Novosti aveva preannunciato un intervento del presidente. Tutti i canali televisivi erano stati avvisati per ben tre volte che stava per arrivare una dichiarazione del capo supremo. Ci sono volute invece quasi diciannove ore, durante le quali il mondo intero si chiedeva cosa potesse dire, e soprattutto come intende reagire allo schiaffo di una strage quasi annunciata, l’uomo che dispone del potere assoluto in Russia.
Alle 15.30 ora di Mosca, Putin è apparso in televisione per un discorso durato appena cinque minuti. «Mi rivolgo a voi in relazione all’atto terroristico sanguinario e barbaro...». Come accadde in altre occasioni, il presidente ha atteso di avere qualche fatto in grado di soddisfare l’opinione pubblica. «Hanno cercato di fuggire verso l’Ucraina, dove gli era stata aperta una finestra per attraversare la frontiera di Stato». «I criminali hanno organizzato un omicidio di massa ai danni di gente inerme, come un tempo facevano i nazisti, che compivano massacri nei territori da loro occupati». «Tutti gli esecutori, gli organizzatori e i mandanti affronteranno una punizione inevitabile. Individueremo e colpiremo chi sta dietro questi terroristi, chi ha preparato questo delitto, chi ha consentito che potesse accadere».
Non è una chiamata in causa diretta. Ma ognuna di queste frasi, con la triade Ucraina, nazisti, protettori o mandanti di terroristi, è la conferma dei timori generali sulla possibile piega che prenderanno gli eventi. L’inevitabile rappresaglia di Putin non guarderà al Caucaso sempre più colonizzato dall’Islam radicale. Non ora, non in questo momento storico. La colpa ricadrà su Kiev e per estensione sul nemico occidentale. Ancora prima che il presidente parlasse alla nazione, il sito del quotidiano Kommersant operava una brusca sterzata, cancellando dalla sua homepage ogni riferimento all’Isis, e affermando che secondo alcune fonti, il commando della strage era composto da combattenti russi filo ucraini che indossavano «barbe false» per sembrare combattenti islamici.
Il Comandante in capo suggerisce la linea, i suoi megafoni la diffondono. La curvatura degli eventi così come erano stati finora riportati si è fatta sempre più evidente. I blogger patriottici, che contano milioni di follower, hanno cambiato versione almeno tre volte nel giro di poche ore. Quando Putin ha parlato della «finestra», in qualche modo suggerendo una complicità da parte delle autorità di Kiev, la teoria del complotto ha prevalso. Canale Zapiski, che raccoglie le opinioni dei reduci dell’Operazione militare speciale: «Abbiamo certezza assoluta che questo massacro sia opera dei servizi segreti ucronazisti, istruiti da quelli occidentali». Il popolarissimo Canale Z: «La Khokhlandia (khokhly, ovvero ciuffi, è un termine spregiativo che indica gli ucraini) ha fatto finta di non c’entrare nulla con questi mostri. Ma li abbiamo presi mentre andavano verso i propri protettori». Le voci sono ben presto diventate un coro. La direttrice di RT Margarita Simonyan, fedelissima di Putin, accanto al quale fece da madrina per l’inaugurazione del ponte di Crimea, considera l’allarme su una minaccia dell’Isis lanciato giorni fa dagli Usa come la prova del complotto. «Ormai è chiaro che tutto è stato orchestrato. Poco importa se il cane con la camicia ricamata (Zelensky, ndr) si è sguinzagliato da solo, oppure se gli hanno impartito un ordine. In ogni caso la colpa è dell’ammaestratore...».
L’Isis è ben presto sparito da ogni titolo dei telegiornali e dai siti dei principali media. Ma se è stato l’Occidente per interposta Ucraina a macchiarsi di questo crimine così orrendo, il giro di vite sarà ancora più stretto. Sono giorni che si rincorrono le voci su una nuova mobilitazione, propedeutica a una offensiva estiva. Putin non ne ha mai fatto cenno durante la campagna elettorale, perché si tratta di un provvedimento molto impopolare. La strage del Crocus cambia però ogni scenario, fino a rendere plausibile anche una proclamazione della legge marziale e una dichiarazione di guerra ufficiale a Kiev. Kirill Martynov, direttore di Novaya Gazeta-Europa, riconosce se non altro una certa coerenza nella direzione intrapresa dal Cremlino. «Per molti anni i russi si sono pasciuti di propaganda. Nella visione del mondo che gli è stata inculcata, ai nostri confini esiste uno Stato ostile popolato da neonazisti che odiano tutto quello che è russo, un nemico mortale capace di delitti orrendi. Perché mai non dovrebbe essere lui l’autore di questa strage? Al terzo anno di guerra, questa è una logica normale».
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Fabrizio Dragosei per il Cds (l’attentato)
Un bilancio spaventoso che per ora si attesta ad almeno 143 morti ma che sembra destinato a salire, visto che di molte persone che erano nella grande sala del Crocus Music Hall non si hanno notizie. Solo nella serata di ieri i pompieri sono riusciti a estinguere completamente l’incendio appiccato dagli attentatori che venerdì sera erano entrati sparando e uccidendo chiunque incontrassero. I feriti ancora in ospedale sono 107, ma, secondo alcune voci, duecento spettatori mancherebbero all’appello.
I quattro killer, tutti provenienti dal Tagikistan, una delle repubbliche islamiche dell’Asia centrale, sono stati presi nella regione di Bryansk, su una delle arterie che portano verso il confine con l’Ucraina e la Bielorussia. I bielorussi avrebbero sigillato la loro frontiera per bloccare i killer. Quella ucraina, invece, è comunque fortemente controllata dai militari di Mosca.
La giornata di lutto
Il presidente Putin, che è apparso in tv per parlare alla nazione, ha proclamato per oggi una giornata di lutto, ha rassicurato i russi sul fatto che oltre ai criminali anche i mandanti saranno catturati e ha quasi indicato una pista ucraina: «Hanno cercato di nascondersi e si sono diretti verso l’Ucraina, dove, secondo dati preliminari, sul lato ucraino è stata preparata una finestra per attraversare il confine di Stato».
Da Kiev Zelensky ha ribaltato le accuse: «Putin e le altre canaglie cercano semplicemente di dare la colpa a qualcun altro», e ha citato le esplosioni nei palazzi russi del 1999 che alcuni attribuiscono ancora oggi ai servizi segreti di Mosca.
I quattro killer sono stati sommariamente interrogati dagli agenti che li hanno fermati. In un filmato, si vedrebbe invece uno dei sospetti al quale viene tagliato un pezzo di orecchio che gli viene poi messo in bocca. Uno degli uomini, Shamsidin Fariduni, ha risposto in un russo approssimativo alle domande. Ha detto di essere stato assoldato tramite il canale Telegram da un predicatore che lui ascoltava in internet.
La matrice islamica
Anche diverse fonti legate all’Isis hanno ribadito la matrice islamica dell’attentato. D’altra parte, estremisti musulmani hanno perpetrato varie stragi negli anni. L’ultima con una bomba posta nel 2015 su un aereo esploso sopra il Sinai con 224 passeggeri a bordo. Due settimane fa, poi, i servizi segreti avrebbero sventato un assalto a una sinagoga. Il sito d’opposizione Meduza ha però scritto che nei giornali e nelle tv legate al Cremlino sono state date indicazioni di puntare sulla pista ucraina.
I quattro esecutori saranno interrogati dai magistrati, mentre sarebbero undici in totale i sospetti fermati dagli agenti. Dopo essere arrivati a bordo della stessa Renault bianca con la quale sono successivamente fuggiti, i banditi hanno aperto subito il fuoco contro le persone che stavano andando al concerto del gruppo rock Picnic. Poi sono entrate nella sala e hanno anche cosparso il pavimento di un liquido incendiario al quale hanno dato fuoco. Molte delle vittime sono state uccise dalle esalazioni tossiche mentre cercavano di mettersi in salvo o di nascondersi.
Ventotto cadaveri sono stati ritrovati in un bagno. Altri nei corridoi e sulle scale d’emergenza in parte bloccate. Dopo un primo momento, c’è stato un fuggi fuggi generale. Parecchi sono riusciti a raggiungere la strada, anche sfondando a fatica le vetrate. Alcuni hanno raggiunto la parte del tetto che non è crollata.
Telecamere di sicurezza hanno ripreso l’auto all’esterno, ma l’intervento delle truppe speciali è stato tardivo, come i soccorsi. Almeno secondo quello che hanno riferito i testimoni. «Ci sono telecamere dappertutto, ma solo per controllare gli oppositori», ha dichiarato furiosa alla Ap Ekaterina, che era al teatro. Si è salvata assieme al marito anche Evgenia Ryumina, figlia di due famosi astronauti russi. Era stata inserita nell’elenco delle vittime perché avevano trovato la sua borsetta con i documenti nel teatro. Almeno 4 mila cittadini si sono presentati ai centri per la donazione del sangue, mentre centinaia di moscoviti continuano a recarsi al Crocus Village per portare fiori, accendere lumini e lasciare in terra giocattoli in memoria delle piccole vittime del massacro.
Il discorso in tv
Nel suo discorso in tv Putin ha detto che «gli autori, gli organizzatori e i mandanti di questo crimine subiranno una punizione giusta e inevitabile». Ha poi aggiunto che in tutto il Paese sono state prese misure di sicurezza eccezionali e che la caccia ai mandanti è aperta. Ha quindi paragonato ciò che è accaduto alle stragi che venivano compiute in Urss dai nazisti invasori durante la Seconda guerra mondiale.
Alcuni deputati hanno fatto sapere di aver allo studio una proposta per sospendere la moratoria sulla pena di morte che è in vigore dai primi anni Novanta.