il Giornale, 24 marzo 2024
Malraux e la conferenza del 1946
Avrà davvero incontrato Mao trattandolo da pari, André Malraux; e discusso con Nehru, il primo ministro indiano, dell’altro mondo; e preso un caffè con il suo mito, Lawrence d’Arabia – a cui dedica il libro più bello, incompiuto, postumo, Le Démon de l’absolu, recluso nel tomo secondo delle uvres complètes, Gallimard, 1996 – poco prima che morisse? Una fotografia – autentica – lo ritrae al fianco di Jackie e John Kennedy con la seconda moglie, Madeleine, vedova del fratello, Roland, soldato, resistente, morto in guerra. Henry Kissinger lo riteneva, per lo più, un mistificatore. Il fatto è che «André Malraux è inseparabile dal suo personaggio» (Massimo Raffaeli); comunista e gollista, scaltro fino all’ingenuità, presuntuoso fino all’innocenza. Voleva diventare Gabriele d’Annunzio, fu lo scrittore più potente del ’900, plenipotenziario della cultura francese dal 1959 al 1969. I suoi romanzi supremi sono La condizione umana e La Via dei Re; Antimemorie, proprio perché spudoratamente agiografico, è uno dei libri di storia più viscerali di sempre, un’iniziazione alla vita ribelle. Malraux era un autentico retore, un dioscuro del verbo, scaturito da una cupa cronaca di Tacito: per questo i suoi discorsi – ora tradotti da Maura Baldini per De Piante come Occidentali, quali valori difendete?, pagg. 160, euro 24; prefazione di Massimo Raffaeli – sono quintessenziali al personaggio. Dall’orazione tenuta nel 1935 al «Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura», a quella del 1975, in memoria del generale de Gaulle, il libro è un volo a capofitto nel ’900, il taglio di Fontana sul cranio del secolo. Il dettato è teatrale, abissale, magnetico: Malraux tiene insieme Stalin e Cézanne, la Cina e le grotte di Lascaux. Una falsa idea di progresso, ci dice, ha reso esangue l’Europa, un insigne pettegolezzo, che non ha più nulla da consegnare all’eterno. «L’arte ha smarrito la pretesa di verità a beneficio della volontà di apparire dell’artista», scrive, con superba lungimiranza. Il destino dell’Occidente, scrive, è fronteggiare la morte con lo scettro dell’opera: un cupo sentore di sangue attraversa queste pagine, spesso memorabili. «In questo mondo quasi del tutto corrotto... il primo artista riapparirà fra le rovine dell’ultima città spettro, in Occidente o in Russia, riconquisterà l’arcano linguaggio della scoperta del fuoco», dice nel 1952. Sapeva che la resurrezione è possibile soltanto inargentati di cenere; intuiva volti tra le braci; sapeva scorgere i segni. Morì in odor di pazzia.
Davide Brullo
André Malraux
Un interrogativo, persistente e ossessionante, attraversa i dialoghi intavolati da un capo all’altro dell’Europa, e si manifesta con tale intensità che, se non cominciassimo da esso, sarebbe come parlare del nulla. Alla fine del XIX secolo, la voce di Nietzsche ha ripetuto l’antica frase udita sull’arcipelago: «Dio è morto!...», restituendo ad essa tutta la sua tragica enfasi. Ne conoscevamo bene il significato: eravamo in attesa del regno dell’uomo. Il problema che si pone oggi è sapere se su questa vecchia terra d’Europa l’uomo è morto oppure no.
Il XIX secolo ha coltivato una speranza immensa nella scienza, nella pace e nella ricerca della dignità. Quanto alla pace, mi pare sia inutile insistere. Quanto alle scienze, gli esperimenti nucleari a Bikini ci forniscono una risposta. Quanto alla dignità... Il problema del male, purtroppo, non è assente nel XIX secolo. E quando riaffiora, non lo fa più soltanto attraverso le lugubri e tragiche marionette alla mercé degli psicanalisti; si ripresenta con le fattezze dell’imponente e tenebroso arcangelo dostoevskiano che si affaccia al mondo e dice: «Rifiuto il mio biglietto se il supplizio di un bambino innocente a opera di un bruto dev’essere il riscatto del mondo».
Al di sopra di tutto ciò che vediamo, al di sopra di queste città-spettro e di altre in rovina, si stende sull’Europa una presenza ancora più terrificante, poiché l’Europa flagellata e sanguinante non è più flagellata e sanguinante dell’uomo che sperava di forgiare.
È assolutamente indifferente, per voi studenti, il fatto di essere comunisti, anticomunisti, liberali o qualsiasi cosa d’altro, poiché l’unico vero problema è sapere, al di là delle strutture, secondo quale forma possiamo ricreare l’uomo. Oggigiorno, siamo al cospetto dell’eredità di un umanesimo europeo. Come ci appare questa eredità? Innanzitutto, come il luogo di un razionalismo permanente, accompagnato dall’idea di progresso. Si tratta dunque di sapere se rivendichiamo questi due concetti, oppure se pensiamo che il problema europeo risieda altrove e che la cultura dell’Europa sia tutt’altra cosa.
L’Europa, che il mondo intero interpreta in termini di libertà, concepisce se stessa unicamente in termini di destino.
E dunque, quali sono oggi i valori dell’Occidente? Ne abbiamo viste abbastanza per sapere che non si tratta certamente del razionalismo né del progresso. Il primo valore europeo è la volontà di coscienza. Il secondo è la volontà di scoperta. È questa lotta perpetua della psicologia contro la logica, che percepiamo nelle forme dello spirito. È il rifiuto di accettare il dogma di una forma imposta. La forza occidentale consiste nell’accettazione dell’individuo. Esiste un’ipotesi di umanesimo, ma bisogna dirsi, e chiaramente, che si tratta di un umanesimo tragico. Siamo al cospetto di un mondo imponderabile; lo affrontiamo con coscienza e siamo i soli a volerlo.
La civiltà europea colloca i propri valori all’interno di realtà con essi incompatibili. Pensiamo, in particolare, all’ottimismo verso il progresso (aspetto di cui diffidiamo di più), il quale non soltanto non è un valore europeo – tutti voi lo sapete -, ma è un valore precipuamente americano e russo. Noi non calpestiamo un terreno di morte. Ma siamo a un punto cruciale, in cui la volontà europea deve ricordarsi che ogni grande erede ignora o dilapida i beni della sua eredità, per ereditare soltanto forza e intelligenza. L’erede di un cristianesimo propizio è Pascal. L’eredità dell’Europa è l’umanesimo tragico.
Dalle più estreme solitudini, persino quella in Dio, abbiamo ricavato messi feconde: chi sulla terra, se non noi, ha inventato la fertilità dei santi e degli eroi? L’eroe assiro è solo sui suoi cadaveri, il Buddha è solo sulla sua carità; Michelangelo, Rembrandt, sono soltanto rapporti di volumi e colori, o sono anche uomini gettati in pasto alla loro facoltà divina, a beneficio di tutti coloro che ne saranno degni?
La giustizia della Bibbia, l’antica libertà delle città, chi le ha imposte al mondo? La giustizia e la libertà, da sole – lo abbiamo, del resto, appena constatato -, diventano rapidamente vittime di minaccia. E il valore che le oltrepassa è soltanto l’Europa ad averlo cercato. Sostengo che essa lo cerca ancora. E che, fino a nuovo ordine, essa è sola in questa ricerca, al cospetto dell’ignoto – ignoto! – e della tortura non ancora dimenticata.
Ben inteso, di secolo in secolo, gli uomini sono succubi di uno stesso destino di morte; ma, di secolo in secolo, in questo luogo che si chiama Europa – e quivi soltanto – alcuni di essi si sono rialzati per addentrarsi, implacabili, nell’oscurità, per rendere intellegibile l’immensa confusione del mondo e trasmettere le loro scoperte invece di farne dei segreti, per tentare di trasformare il mondo effimero con la prerogativa della vittoria sulla morte, per comprendere che l’uomo non nasce dall’affermazione di se stesso, bensì dalla confutazione dell’universo. Come dell’Inghilterra e della battaglia di Londra diciamo: «Se deve morire, allora possano tutte le culture agonizzanti avere una così bella morte!», proclamiamo anche che, malgrado le più sinistre apparenze, i posteri guarderanno con stupore all’angoscia contemporanea, e l’occupazione di Roma, di Nicopoli, la caduta di Bisanzio sembreranno loro soltanto infime turbolenze accanto allo spirito implacabile che dichiara alle immense e minaccianti ombre distese sopra di lui: «Di voi, come di tutto il resto, ancora una volta ci serviamo per plasmare l’uomo dall’argilla».
André Malraux