il Giornale, 24 marzo 2024
Laudati rischia dieci anni (ma sta per lasciare la toga)
Il 17 aprile, tra meno di un mese, il magistrato Antonio Laudati andrà in pensione. Questo lo colloca e al riparo dal punto di vista disciplinare dalle conseguenze della bufera che gli è cascata addosso, con l’incriminazione da parte della procura di Perugia per la vicenda dei dossier trapelati dalla Direzione nazionale antimafia quando lui dirigeva l’ufficio Sos. Lì si centralizzavano le segnalazioni di operazioni sospette provenienti dalla Banca d’Italia. E lì, sotto la sua gestione, decine di migliaia di interrogazioni illegali hanno alimentato fughe di notizie, scoop e dossieraggi. Ai danni di imprenditori, vip e politici: soprattutto di centrodestra.
Il procedimento disciplinare a carico di Laudati non verrà nemmeno iniziato – e così si spiega l’inattività del ministro Nordio e della procura generale della Cassazione – proprio perchè Laudati a breve lascerà la toga. Ma l’indagine penale contro di lui va avanti, per tre reati – accesso abusivo a sistemi informatici, falso in atto pubblico e abuso d’ufficio – che sommati aritmeticamente potrebbero costargli oltre dieci anni di carcere. Così diventa inevitabile chiedersi quale sarà la strategia processuale di Laudati. Perché se il sostituto procuratore antimafia scegliesse di raccontare quanto accadeva all’intero della Dna, mettere un argine a quanto sta accadendo, minimizzare la portata dello scandalo, potrebbe diventare assai difficile.
Laudati finora ha scelto di tacere davanti ai magistrati di Perugia che l’avevano convocato per interrogarlo. «Dimostrerà la sua estraneità ai fatti contestati», ha fatto sapere il suo legale. Il problema è che nel frattempo su di lui si è abbattuto un fuoco incrociato di accuse. Da una parte il suo collaboratore più stretto, il luogotenente della Guardia di finanza Pasquale Striano, l’infaticabile produttore di accessi abusivi passati ai giornalisti del Domani, che ha detto alla Verità di avere eseguito i suoi ordini. Poi il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, che alla commissione Antimafia ha confermato che certamente Striano non agiva da solo. L’ultimo, il più secco di tutti, il comandane generale della Finanza, Andrea De Gennaro, che all’Antimafia ha indicato con nome e cognome Laudati come colui che dirigeva le attività di Striano.
Fino a quando Laudati, provato psicologicamente e in condizioni di salute precarie, subirà senza reagire queste accuse? Domani in Antimafia è fissato un altro passaggio delicato, con l’audizione del direttore della Dia, il generale Michele Carbone. Nelle ricostruzioni di questi giorni la Dia (l’organismo interforze destinato alle indagini sulla criminalità organizzata) è stato indicato come uno dei vertici del triangolo che si era impadronito del monopolio delle Sos, insieme alla Procura nazionale e al Nucleo valutario della Guardia di finanza. È in quel triangolo che si crea di fatto un organismo di intelligence finanziaria non previsto da nessuna legge, una centrale di informazioni e (quindi) di potere sottratto a controlli esterni: e al cui interno prospera la fabbrica dei dossier. Nessuno di questi tre organismi è oggi comandato dagli uomini che erano al loro vertice nel triennio tra il 2019 e il 2022 in cui l’attività di dossieraggio ha preso piede. Ma ricostruire come il triangolo ha operato è il vero obiettivo dell’Antimafia, «occorre prestare molta attenzione al sistema si relazioni e di rapporto funzionale del luogotenente Striano», spiega il capogruppo di Forza Italia in commissione Mauro D’Attis. È possibile che di quel triangolo Laudati fosse solo un elemento marginale. Ma dovrebbe essere lui il primo a spiegarlo.