La Stampa, 24 marzo 2024
Intervista a Paolo Nori
Umberto Galimberti ha detto a questo giornale che non sappiamo ascoltare l’altro, e quindi non riusciamo a dialogarci, perché non sappiamo amarlo: non lo riteniamo capace di portarci altrove, di stravolgerci.
È giusto misurare il disamore verso il prossimo dall’intolleranza verso le sue opinioni? È giusto credere che preferiamo i replicanti agli sfidanti? «La mamma di mia figlia, Francesca, che è la donna che preferisco al mondo, io non riesco a chiamarla compagna, perché in dialetto parmigiano compagna vuol dire uguale, e se c’è una persona radicalmente diversa da me, è lei», dice alla Stampa Paolo Nori, scrittore e traduttore, esperto appassionato di letteratura russa.
Ricorda quella frase che usava, “non sono d’accordo con te, ma morirei affinché tu possa dire cosa pensi”? Non la dice più nessuno.
«Io non l’ho mai detta, e non la direi mai. È un male?».
Forse è un sintomo.
«Di cosa?».
Del fatto che nessuno è più disposto a difendere i diritti degli altri, la loro libertà.
«E su quali basi lo dice?».
L’America si è di nuovo innamorata di Trump, gli studenti italiani vengono manganellati in piazza, l’Argentina ha votato un autocrate.
«Le manganellate sono state condannate. L’America la conosco poco e non la amo. Il mio posto è altrove».
Dove?
«È brutto dirlo, ma è un posto dove non c’è la democrazia. Al Salone del Libro dell’anno scorso, qualcuno ha chiesto a Carrère come mai ai russi non piace la democrazia e lui ha risposto che l’hanno avuta, per un periodo breve, quando c’era Boris Eltsin, ed erano al governo i liberali. E però, ha detto Carrère, quegli anni sono stati terribili per i russi. Ed è vero, io ero lì, ci vivevo, e la gente si sparava per strada: il passaggio dal regime comunista a quello capitalista era stato terribile, per loro. Fino al giorno prima, lo Stato pensava a tutto: non c’era disoccupazione, i servizi erano gratis, poi, tutto finito. E i russi la democrazia la identificano con quel periodo, così drammatico che smisero di fare figli».
Ma era un momento di transizione. Basta a spiegare Putin?
«Carrère ha detto quella volta a Torino: i russi non cercano qualcuno che li avvicini alla democrazia, ma qualcuno che li difenda dalla democrazia. Putin è questo».
Lo trova comprensibile?
«Dovlatov, che lasciò Leningrado per trasferirsi in America e poter scrivere, pubblicò una lettera, su una rivista che aveva fondato proprio lì, in cui diceva che i cerini erano migliori in Unione Sovietica, e che la gente si comportava meglio, perché c’era un regime talmente oppressivo che ci si dava una mano per forza. Diceva, in sostanza: gli Stati Uniti mi hanno salvato la vita, ma a Mosca vivevo meglio».
Anche in Occidente c’è l’idea che in democrazia non si viva bene, e in fondo la libertà ci abbia traditi.
«Non è la democrazia che determina il fatto che tu stia male o bene».
E nemmeno la libertà di dire quello che pensi?
«No. Se stai bene o male non dipende dal governo o dalla sua forma. La qualità della vita di Dovlatov a Leningrado era altissima».
Però è scappato.
«Ma non ha mai smesso di dire che stava meglio in Unione Sovietica, perché lì c’era qualcuno a cui importava di lui. È il grado di gentilezza che siamo capaci di scambiarci che ci fa stare bene, non i governi».
Non sono d’accordo.
«Lo so, ma sbaglia».
No che non sbaglio: se vivo in un Paese classista, come faccio a essere felice? Come faccio a stare bene se l’uguaglianza non viene garantita?
«Ma lei ha davvero creduto alla favola del siamo tutti uguali? Non lo siamo».
Parlo della parità di possibilità.
«Io sono figlio di un muratore, mi sono laureato e ora insegno in università».
Lo ha fatto in un altro tempo.
«Certo, ma la sostanza dello stare al mondo non cambia: si fa fatica. Si deve fare fatica. E noi per stare bene possiamo fare un sacco di cose, indipendentemente dai governi. Il libro che me lo ha fatto capire è Il manuale di Epitteto».
Quello che dice: se tua moglie muore, che cosa soffri a fare, mica puoi farci niente?
«Esatto. Lui dice: ti devi occupare delle cose che dipendono da te, non di quelle che dipendono dagli altri. Tra le cose che dipendono da te, mette il tuo umore. E ha ragione. Il mio umore dipende da me. Le parlo da una cucina nella quale 15 anni fa ho fatto una telefonata con mia mamma che ha cambiato la mia vita, perché mi sono visto da fuori e mi sono accorto che io, mia mamma, la trattavo male e mi sono chiesto: ma questa donna, oltre a metterti al mondo e volerti bene per tutta la vita, cosa ti ha fatto? E mi sono sentito così deficiente che la mia vita è cambiata completamente. E questa è stata una cosa molto più importante di qualsiasi decisione che può prendere il governo Meloni».
A cosa dobbiamo educarci, se è tutto nelle nostre mani?
«Alla gentilezza. Io porto in giro un monologo, A cosa servono i russi. A Terni, una volta, è venuta una ragazza italiana e mi ha detto: non leggo i russi, non so il russo, ma ho capito bene il suo discorso perché ho adottato un bimbo russo da due anni e da quando è arrivato, gli hanno fatto pagare il fatto di essere russo. Queste violenze noi possiamo smettere di farle, perché essere nati in un posto non dev’essere una condanna. Avere un passaporto israeliano non è una colpa. Le persone sono persone».
Lei vota?
«Prevalentemente no».
Un esercizio della libertà di espressione è imparare a tacere?
«Certo. Penso che qualcuno farebbe più bella figura se non dicesse cose che per me sono sciocchezze. Nel 2022 mi hanno chiamato a Marzabotto a parlare, il 25 aprile, ed era l’anno che l’Anpi aveva chiesto di non portare bandiere di Stati, neanche dell’Ucraina, provocando molte critiche. Io ero andato lì a dire che c’è stata e c’è ancora una grande intolleranza verso quelli che non si allineano».
Quando, subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina, l’università Bicocca annullò le sue lezioni su Dostoevskij, che successe?
«Che mi invitarono altrove, e quelle lezioni diventarono, da 4, 104. La censura fa sempre bene ai censurati. Ecco perché gli studenti che stanno impedendo a molti di parlare, in università, sbagliano: fanno, di chi contestano, delle vittime».
Li condanna?
«Ma no. Hanno vent’anni, se non sono massimalisti adesso, quando? E poi ho una enorme stima per questa generazione. Io quando avevo 16 anni, con i miei amici mi ponevo solo un problema: sarò mica omosessuale? Capisce? Per mia figlia, quello, così come il razzismo, non è un problema, ed è un enorme passo avanti, e questi ragazzi lo hanno fatto da soli, noi non abbiamo alcun merito».
Forse è anche per questo che sono così radicali, perché le loro vite le decide qualcuno che è molto più indietro di loro.
«Questo non giustifica il non far parlare gli altri. Qualche giorno dopo il blocco di quelle mie lezioni, a Mosca, vennero affissi dei manifesti su cui era scritto: «In Italia impediscono di parlare di Dostoevskij. Noi, almeno, Mark Twain ancora ce lo godiamo». Usarono Mark Twain e non un autore italiano, e questo perché noi, per loro, già allora, eravamo Occidente: eravamo tutti gli altri».