La Stampa, 24 marzo 2024
Intervista a Giuseppe Lavazza
Asnakesh sapeva gestire la comunità. Era passata in poco tempo dal gruppo delle donne che raccoglievano il caffè sugli arbusti della foresta etiope, su su, fino alla guida del villaggio. Un compito che fino a poco tempo prima era un privilegio dei capifamiglia maschi. Per quale motivo l’uomo del chicco aveva detto sì, aveva promosso la sua ascesa? «Perché nell’organizzazione le donne sono più brave, più sagge e più parsimoniose». Capita che sia la realtà a lavorare contro le divisioni di genere. «Quella di Asnakesh, purtroppo, non è una storia a lieto fine. Il villaggio venne coinvolto negli scontri tribali. La sua casa rasa al suolo e bruciata. Lei fu costretta a scappare a Londra». Di quei giorni restano le fotografie che le fece Steve McCurry per il calendario del 2015. «Non tutti i tentativi vanno a buon fine. Ma vale sempre la pena scommettere sui cambiamenti. Noi cerchiamo continuamente di migliorare il rapporto con i produttori locali. Senza di loro il nostro lavoro non ci sarebbe». Ragiona così Giuseppe Lavazza, da un anno alla guida della holding del caffè, il quarto produttore al mondo nell’impero della tazzina.
Non si arriva per caso a sfidare i colossi del chicco. La Lavazza nacque nel cuore di Torino, in uno di quei negozi che un tempo si chiamavano “drogherie” perché vendevano un po’ di tutto, dallo zucchero sfuso nella carta azzurra ai saponi e alle spezie. Il caffè era un problema perché a seconda delle stagioni l’arabica scarseggiava o abbondava, gli altri tipi di aroma seguivano analoghe altalene legate alle stagioni. Il signor Luigi Lavazza da Murisengo, sulle colline astigiane, trovò la soluzione: la miscela. Mischiando i diversi tipi di caffè riuscì a garantire un aroma identico tutto l’anno, a dipendere meno dai cicli delle stagioni, a stabilizzare l’offerta. Ancora oggi, quasi 130 anni dopo, il principio è lo stesso. Solo è stato industrializzato. Sotto il piazzale dello stabilimento alle porte di Torino corrono i tubi che collegano i silos con i diversi tipi di caffè alla linea di produzione. La miscela del signor Luigi oggi la garantisce un computer che stabilisce le giuste proporzioni dei diversi aromi. Un processo industriale. «Certo, è proprio per questo che è indispensabile tornare al rapporto con i produttori», garantisce Giuseppe. E spiega che «cerchiamo il più possibile di portare una parte dei nostri dipendenti nei villaggi a parlare con chi raccoglie i chicchi. Perché si rendano conto che il loro lavoro è solo l’ultimo miglio di un lungo processo che inizia in Etiopia, in Colombia, in Brasile. Io dico sempre: fino a quando non ti metti l’abito tradizionale degli abitanti dei villaggi e non partecipi alle loro assemblee, non tratti con loro da pari a pari, fino ad allora non avrai capito davvero come si produce e come si vende il caffè».
A 59 anni, il più anziano della quarta generazione, Giuseppe Lavazza, è il caffè. Ma da ragazzo? Quando ha capito di essere un Lavazza, con tutto quel che il cognome comporta? «In generale la mia famiglia ha sempre cercato di farci fare una vita il più possibile normale. La tradizione torinese non è quella di mettere in mostra la ricchezza. Ricordo però due episodi molto differenti che mi hanno fatto capire quanto particolare fosse la mia condizione. Il primo è degli anni Settanta. Mi dissero che dovevo andare a scuola “con la scorta, in un’auto blindata”». Che cosa vi preoccupava? Che cosa temevate? «Avevano trovato minacce alla nostra famiglia in un volantino di un gruppo terroristico durante la perquisizione di un covo». Avete pensato a lasciare l’Italia per sfuggire alla minaccia? «Ho saputo dopo che questa era stata una delle opzioni presa in considerazione dalla mia famiglia. Poi però rimanemmo. Avevamo qui il cuore della nostra industria».
PUBBLICITÀIl secondo episodio? «È decisamente più piacevole. A un certo punto si diffuse la voce che i Lavazza avrebbero comperato il Toro». Voce fondata? Ci avevate pensato? «Assolutamente no. Avevamo comperato poche azioni per poter frequentare il circolo che era annesso alla sede sociale». Lei era tifoso? «Io all’epoca seguivo mio padre che tifava Torino. Ero anche allo stadio il giorno in cui vinse lo scudetto». Che cosa ricorda di quegli anni? «Ero andato anche in curva, trascinato da un amico. Lo avevo fatto per curiosità. Ricordo che era obbligatorio cantare. Ma non era semplice, bisognava conoscere gli inni. E noi non li sapevamo. Muovevamo la bocca per non dare nell’occhio». Funzionò? «A metà. Io mi salvai ma il mio amico venne scoperto. Allora dalle gradinate superiori cominciarono a urlarci “Canta!”». Ma lei per chi tifa? «Io tifo Juve. Mia mamma, tifosa bianconera, mi chiedeva di accompagnarla allo stadio. Lo feci molte volte e piano piano diventai bianconero anch’io». Il Toro non lo comperaste ma avete investito molto sul tennis, sponsorizzando tutte le tappe del Grande Slam e le Atp Finals. «Tutto nacque un giorno a Wimbledon. Un posto magico, esclusivo. Cominciammo a vendere il caffè. L’accordo con l’organizzazione era che i giornalisti in sala stampa avrebbero potuto bere il caffè gratis e i costi ci sarebbero stati rimborsati dal circolo del tennis più famoso del mondo. A fine manifestazione il costo per l’organizzazione fu di 40.000 sterline. Per noi un grande successo. Ma dall’anno dopo fu tutto a pagamento e noi diventammo il caffè ufficiale della manifestazione». Oggi il vostro testimonial è Sinner: «È con noi da tempo, da prima di diventare famoso. Noi aiutiamo anche i carota boys, il più originale tra i gruppi dei suoi fans».
Una multinazionale che ha 5.500 dipendenti in tutto il mondo e serve ogni anno l’equivalente di trenta miliardi di tazzine di caffè. In 130 anni ne ha fatta di strada l’idea del signor Luigi. Un gruppo mondiale che però ha mantenuto nel marchio il nome Torino. Non sono molte le aziende che lo fanno: «Noi vendiamo il caffè in tutti i continenti ma ci piace immaginarci come un’azienda glocal. Radicata in Italia perché il caffè esprime meglio di altri l’idea dello stile di vita italiano. Questo poi è stato il filo conduttore di tutte le nostre fortunate campagne pubblicitarie». Il caffè ha regole diverse in ogni Paese, non è facile adattarsi alle abitudini di consumo locale: «Ma siamo diventati abbastanza bravi a rispettare gli usi e i costumi locali. In Francia, ad esempio, abbiamo acquisito Carte Noire, un brand iconico per i francesi. Era stato rilevato tempo fa da una multinazionale. Noi, a partire dallo stabilimento di produzione, lo abbiamo ri-francesizzato e questa operazione è stata apprezzata dal mercato. L’adattamento ai gusti locali non è il principale problema da risolvere. È invece quello dei regolamenti europei che riguardano la produzione e il confezionamento e che cambiano in continuazione». Voi vendete al globo intero. Agli americani e al mondo anglosassone proponete il caffè filtro che può essere utilizzato anche nei bollitori per il the. In altre aree va il caffè lungo o quello con il sedimento come in Turchia. Lei, Giuseppe Lavazza, preferisce il beverone all’americana, il caffè normale o quello ristretto? «Premesso che io vendo il prodotto a tutti in qualsiasi modo lo chiedano, certo anche io ho i miei gusti. Io sono un italiano e amo la nostra tradizione. A me piace il caffè, quello intenso. Non l’acqua».