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 2024  marzo 24 Domenica calendario

Le mille vite di Luigi Einaudi


Lo rammentava Norberto Bobbio, quasi a futura memoria, così necessaria in questo nostro tempo: «L’unica riforma costituzionale da cui Luigi Einaudi non si sarebbe lasciato sedurre era quella che volge uno sguardo benevolo al presidenzialismo. Non perdette occasione di tessere l’elogio del Parlamento come fulcro dello Stato liberale e democratico. Soleva dire che “la virtù del Parlamento non sta nel legiferare ma nel discutere”, una definizione che corrispondeva perfettamente alla concezione che egli aveva del liberalismo come visione antagonistica della storia».
Voce del Piemonte liberale di ascendenza cavouriana, critico verso Giolitti, il primo presidente della Repubblica nasceva a Carrù centocinquant’anni fa, il 24 marzo 1874, il padre esattore, la madre maestra elementare: «Sulla grande piazza noi assistevamo affacciati alla finestra a fatti che oggi possiamo solo più contemplare nei quadri settecenteschi di Graneri, nella stupenda raccolta del museo civico di Torino. Il cavadenti giungeva nei giorni di festa quando la piazza era popolata di contadini intabarrati…».
Scomparso il padre, Einaudi si trasferì con la madre a Dogliani, dov’è sepolto nel cimitero ideato da Giovanni Battista Schellino, il Gaudì delle Langhe, e dove si distende la tenuta San Giacomo che via via ampliò, godette («Il piacere fisico del possesso, che consiste nel camminare sopra il fondo, nel contemplarlo, nel toccarne le piante e vederle crescere…»), e accudì, depositario qual era di una sapienza contadina testimoniata nell’epistolario con i fattori Bersia.
Nitida è la lezione indigena che permeerà le varie vite einaudiane (il professore di Scienza delle finanze, il giornalista, lo scrittore, il bibliofilo, il governatore della Banca d’Italia che in un anno, fra il 1947 e il 1948, abbassò il tasso d’inflazione dal 62 al 5,8 per cento, il Capo dello Stato, lo stesso agricoltore): «L’uomo, la famiglia – avvertirà riferendosi al suo piccolo mondo antico – non si concepivano sradicati dalla terra, dalla casa, dal comune; e sono questi sentimenti che partoriscono anche l’attaccamento e la devozione alla patria e lo spirito di sacrificio, in cui soltanto germogliano gli Stati saldi».
Seguace di Ricardo e di Smith, antikeynesiano («Il mio piano non è quello di Keynes»), Luigi Einaudi. Ad affascinarlo «la bellezza della lotta» come intitolò la prefazione alla raccolta di cronache del lavoro fra fine Ottocento e inizio Novecento per i tipi di Piero Gobetti editore. Nella convinzione che «solo discutendo faccia a faccia», non invocando l’intervento dello Stato, l’imprenditore e l’operaio «possono giungere a riconoscere le proprie sovranità rispettive».
Un moralista, Luigi Einaudi, della specie che identificò Giovanni Macchia: insieme «pratico», la cui scienza «è rivolta a difendersi o a conquistare il mondo in cui vive», e «puro», come «mezzo espressivo del primo il precetto, del secondo la riflessione». Con una propensione alla “predica”, non stupendosi della sua inutilità ( lePrediche inutili e lePrediche della domenica per ilCorriere della Sera, un programma di educazione nazionale: da “In lode del profitto” a “Viva il latino!”, da “L’età pensionabile” a “Giustizieri e protezionisti municipali”, a “Non creare lavoro inutile”). Spiegava: «A chi ha nel sangue l’imperativo allo scrivere, non giova essere persuasi della inutilità dell’opera propria». Tanto più se indossa la divisa subalpina, fra i suoi comandamenti di respiro kantiano e giansenistico – li elencherà Norberto Bobbio – «fa ël tò dover e ch?rpa» (fa’ il tuo dovere e muori).
È un intellettuale di respiro settecentesco, Einaudi, lui che in Palazzo Madama, a Torino, giovanissimo, studiò la politica finanziaria di Carlo Emanuele III e di Bogino. Teorico e artefice del buongoverno risalta come un contemporaneo del Caffè. Facendo sua la sentenza di Pietro Verri: «Ben governare è promuovere la sicurezza, la libertà e la felicità del popolo». E rifuggendo di conseguenza, nel solco dell’altro Verri, Alessandro, i devoti della Crusca, che sacrificano l’utile allo stile: «Se il mondo fosse sempre stato regolato dai grammatici, sarebbero stati depressi in maniera gl’ingegni e le scienze che non avremmo tuttora né case, né morbide coltri, né carrozze, né quant’altri beni mai ci procacciò l’industria e le meditazioni degli uomini».
Economista e umanista, Luigi Einaudi. Non confinato nell’hortus conclusus della sua disciplina. Scorgerà così in Alessandro Manzoni un «grande economista», quale si rivela nel capitolo dei Promessi sposi sulla carestia: «Ogni volta il discorso cade oggi sul rincaro dei viveri, sui prezzi al minuto e all’ingrosso, sulle malefatte degli accaparratori e degli speculatori, si leggono sui fogli quotidiani e si ripetono nei comizi gli stessi luoghi comuni che l’ironia manzoniana aveva bollato; e cadono le braccia».
Durante il periodo al Quirinale, Luigi Einaudi rinuncerà alla collaborazione giornalistica («i limiti del riserbo che la carica mi impone»). Ma non agli inchiostri. Dal 1948 al 1955 ecco dispiegarsi Lo scrittoio del Presidente. La settennale “predica inutile” di chi non temeva d’essere collocato nell’elenco dei “superati”: «Avendo potuto contemplare quanti fra i superatori erano già alla loro volta stati messi da parte, sempre mi pareva di avere ancora qualcosa da dire in confronto di coloro che non osavano più banfare delle loro novità presto tramontate».