Corriere della Sera, 24 marzo 2024
La verità sulle Fosse Ardeatine
«Se mi avessero cercato certo che mi sarei presentato, ma alla mia maniera, con le armi in pugno e pronto a combattere, non come un agnello sacrificale. Invece no: non una parola, non un comunicato, se non quel terribile “l’ordine è già stato eseguito”». Basterebbero queste parole, pronunciate prima di morire da Rosario Bentivegna (1922-2012), combattente della Resistenza romana, per spegnere il coro di veleni, di falsi miti e polemiche infinite sulla strage delle Fosse Ardeatine.È il 24 marzo 1944 quando il tenente colonnello delle SS di Roma, Herbert Kappler, ordina il massacro di 335 ostaggi inermi presso alcune cave di pozzolana abbandonate alla periferia di Roma, sulla via Ardeatina. Sono antifascisti, renitenti alla leva, partigiani combattenti di tutte le formazioni politiche, uomini di tutte le età (il più piccolo è un ragazzino di 14 anni), ebrei e cattolici, militari e civili (persino disertori austriaci e ungheresi), detenuti da tempo nel carcere di Regina Coeli o nelle camere di tortura di via Tasso.
Fra di loro c’è Manlio Gelsomini, il medico di San Lorenzo che cura gratuitamente gli abitanti del quartiere, caduto in una retata della polizia fascista per colpa di una spia, che finge di avere la figlioletta malata, o Pilo Albertelli il professore di storia e filosofia al liceo classico Umberto I, già confinato e sorvegliato speciale. C’è il tenore del teatro dell’Opera Nicola Ugo Stame: quando lo portano a morire, i nazisti gli hanno già sfondato il torace a botte e calci. Non sono stati condannati da alcun tribunale militare, ma per i nazisti sono Todeskandidaten (letteralmente «candidati alla morte»), da sterminare per vendetta. Perché la strage delle Ardeatine non è una legittima rappresaglia ma un massacro, un crimine di guerra, una ritorsione vigliacca e criminale messa a punto nella massima fretta e con la massima segretezza, per punire uno degli atti della Resistenza militarmente più importanti, fra quelli compiuti in una città d’Europa sotto occupazione nazista: via Rasella.
Sono le tante (troppe) Controversie per un massacro, quelle raccontate da Dino Messina nel suo ultimo, documentato, lavoro, edito da Solferino a ottant’anni dai fatti. L’autore recupera fonti, scava fra gli atti processuali, ascolta memorie e testimonianze, entra negli abissi della mente di chi decise quella «macelleria», con le vittime «costrette a salire e a inginocchiarsi sui corpi dei loro compagni di sventura per ricevere il colpo di grazia». E non teme di affrontare il corto circuito nella memoria degli italiani: quello che ribalta le ragioni e i torti, che punta il dito sui partigiani assassini, vigliacchi, terroristi, colpevoli sfuggiti all’arresto, mostrando pietà (e addirittura solidarietà) per i criminali di guerra nazisti, in fondo solo «poveri soldati, costretti in gioventù ad obbedire a ordini superiori».
Roma è stata una città ribelle, con una media di otto attacchi partigiani al giorno (dirà Kappler) e a via Rasella, il 23 marzo, i gappisti hanno annientato una colonna di 162 uomini della XI compagnia, III battaglione SS Polizei-Regiment Bozen. Si dice che siano altoatesini, non tedeschi (come se l’aver tradito l’Italia indossando la divisa delle SS non li rendesse meno colpevoli); per le strade di Roma marciano cantando ma non sono musicisti e nemmeno dei vecchietti riservisti. E i loro commilitoni del reggimento 101 si sono già macchiati di infamia massacrando la popolazione civile sul fronte orientale. Stesso inquadramento, stesso addestramento, stessa funzione. Torneranno a razziare, impiccare, a «bonificare» il territorio dalle bande di ribelli (non risparmiando donne e bambini), nella valle del Biois, in Cadore, nell’agosto 1944.
Non si tratta di una rappresaglia, ma di un crimine di guerra, una ritorsione vigliacca e criminale
L’Italia repubblicana celebra i suoi martiri con un grandioso mausoleo (un nuovo Altare della patria) a «onore e gloria del sacrificio dei suoi figli»; ma non rivendica la scelta partigiana di quella meglio gioventù, pronta a mettersi fuori legge pur di chiudere i conti (anche con le armi e se necessario con l’uso della violenza) contro i nazifascisti che la violenza la usano mille volte di più. Il Paese dovrebbe mostrare riconoscenza a chi ha risollevato le sorti della patria, gettata nel fango dalle guerre di Mussolini, travolta dalla vergogna e dal disonore dopo la fuga del re e degli alti comandi dell’esercito, l’8 settembre 1943. Ma il dibattito pubblico è avvelenato da distorsioni e manipolazioni della memoria, da clamorose fake news, ancora oggi in circolazione. Come quella dei manifesti che avrebbero invitato i partigiani a consegnarsi per evitare la rappresaglia. Peccato che quei manifesti non siano mai esistiti.
A nemmeno ventiquattr’ore dall’attacco gappista (senza svolgere indagini, emettere comunicati radio o affiggere manifesti), il comandante della XIV armata, il generale Eberhard von Mackensen, aveva ordinato a Kappler di fucilare «dieci italiani per ogni tedesco ucciso». Una proporzione del tutto discrezionale, non prevista da alcun codice penale militare di guerra (se non dalle consuetudini già adottate dall’esercito tedesco in altre operazioni di polizia antipartigiana in Europa o nel resto d’Italia).
Via Rasella e le Fosse Ardeatine sono «una tragedia italiana» (come recita il sottotitolo del libro), ma il peso delle colpe e delle responsabilità non può essere ripartito tra vittime e carnefici. E quelli che si danno alla fuga sono proprio i nazisti come Kappler, processato e condannato all’ergastolo dal Tribunale militare di Roma nel 1948 (misteriosamente fuggito nel 1977 dall’ospedale militare del Celio in circostante mai chiarite); o Erich Priebke, scovato negli anni Novanta da un’emittente televisiva americana in Argentina, a Bariloche, dove aveva vissuto per 50 anni indisturbato, riportato in Italia dopo un lunghissimo iter di estradizione.
Saranno le urla della comunità ebraica di Roma, sotto il portone del tribunale militare, a impedire al criminale nazista di farla franca. Priebke si era sentito offeso nel suo onore di «gentiluomo» e di «ufficiale tedesco», ma erano state proprio le testimonianze dei parenti delle vittime delle Ardeatine (costretti a rivivere il trauma) a inchiodarlo alle sue responsabilità. Figli e nipoti dei caduti nella strage, animati dalla stessa dignità di quelle vedove, madri, sorelle pronte a battersi nel dopoguerra anche contro le autorità alleate, per dare degna sepoltura ai corpi ammassati nelle cave Ardeatine; resti di un massacro pietosamente accolti dall’anatomopatologo Attilio Ascarelli, chiamato a esumarli e a restituire loro un’identità. Spoglie di un monumento sepolcrale, che è oggi un luogo della memoria poco frequentato dai romani e quasi dimenticato.