Corriere della Sera, 24 marzo 2024
Il ruolo culturale che manca nei musei
Formidabili quegli anni. A lungo le nostre pinacoteche hanno affiancato alla conservazione del proprio patrimonio palinsesti ricchi di mostre destinate a rimanere. Si andava a Capodimonte, a Brera, agli Uffizi o alla GNAM per vedere retrospettive «definitive», imperdibili, di solida e misurabile qualità, di rilievo internazionale. Non è più così. Da qualche anno i nostri musei hanno concentrato la propria azione quasi esclusivamente sugli aspetti gestionali e organizzativi, ridimensionando le proprie ambizioni culturali. Troppo spesso hanno rinunciato a investire competenze e risorse nella creazione di mostre preparate, ideate in partnership con istituzioni straniere, pensate per viaggiare nel mondo, esito dello studio condotto per anni dai curatori, frutto di lunghe campagne di prestiti, tese a far riguardare l’itinerario di un artista da un’angolazione inedita, attrattive per gli specialisti e per il pubblico, qualità critica e spettacolarità, in grado anche di generare un plusvalore economico. Dotate di un ruolo altamente civile, indispensabili strumenti per lo sviluppo della conoscenza, le esposizioni, amava ripetere Roberto Longhi, ci fanno «seguire in carne e sangue il cammino di un grande spirito (…) più di quanto non riuscisse a comunicare anche il miglior libro in proposito». È un primato a livello europeo di cui non essere orgogliosi. I nostri musei sapranno uscire dall’autarchia oggi imperante, ricominciando a progettare mostre «necessarie»?