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 2024  marzo 24 Domenica calendario

Anita Ekberg raccontata da Fabrizio Roncone


Il giornalista e scrittore racconta l’attrice. Quell’incontro nell’ospizio, dimenticata da tutti. Amori, segreti e il baciamano
I miei fiori per Anita Ekberg. E la diva di Fellini sorrise l’ultima volta
Anita Ekberg con i fiori per i suoi 80 anni nella clinica dove si trovava, a Rocca di Papa (foto Claudio Guaitoli)
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Di notte, l’altra notte, dal profondo pozzo di Prime, tra ghiotte primizie e preziosi reperti, riaffiora il film «La dolce vita».
Rivederlo o non rivederlo, per la centesima volta? Sono quegli eccitanti istanti di incertezza in cui stai per decidere che farai l’alba. Stavolta, però, i neuroni si distraggono e vanno a rovistare nel cassetto dei ricordi, tirandone fuori uno.

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E allora, ecco: questa è la storia di quella volta che noi del Corriere ritrovammo Anita Ekberg, la leggendaria protagonista – diva bionda in abito nero – della passeggiata notturna dentro la Fontana di Trevi (vi si ricorda, speriamo con inutile zelo, che l’attore maschile era Marcello Mastroianni, magnifico, e che il regista di quell’immenso capolavoro fu Federico Fellini, noto genio del cinema. Il quale comincia il film con due elicotteri che, diretti a San Pietro, sorvolano la Roma del 1960: il primo trasporta una statua di Cristo, a bordo dell’altro ci sono invece il giornalista Marcello Rubini – cioè Mastroianni – e il fotoreporter Paparazzo. È un volo a planare sull’imminente vigilia di una stagione che avrebbe portato benessere e prosperità, illudendo un intero popolo).
Ma non divaghiamo.
«Anitona, te la ricordi? Ce la siamo dimenticata un po’ tutti. Però la prossima settimana compie ottant’anni. Ti andrebbe di intervistarla?» – mi chiedono al telefono da via Solferino, la mattina del 24 settembre 2011, un sabato. Rispondo che beh, sì, certo, è un gran personaggio. Poi – dentro di me, un po’ torbido – aggiungo: un servizio facile, finalmente. Mi si prospetta una domenica ai Castelli Romani. So che la Ekberg, da almeno trent’anni, vive in una villa a Genzano. Il piano di lavoro è basico: vado, la intervisto, e poi mi sistemo in una trattoria che conosco. Magari però prima m’annuncio con una telefonata. Così inizio a cercare un qualche recapito telefonico dell’anziana diva. Ma nessuno ce l’ha, nemmeno i colleghi degli Spettacoli, tipi pazzeschi che hanno agende pazzesche con dentro, alla A, il cellulare di Al Pacino e, alla B, quello di Bobby Solo. Curioso non si trovi un contatto della Ekberg. Però, vabbé: procediamo alla vecchia maniera. Si va, e si suona al campanello.
A Genzano, in un bar: «La Ekberg? È molto tempo che non la vediamo in giro. Comunque: prenda la rotonda, e poi imbocchi la strada che scende tra i vigneti. La terza traversa sulla sinistra, secondo cancello». Suono. Ma niente. Suono ancora: silenzio. Sento solo quella vocina che conosciamo noi cronisti, salirmi da dentro: la storia si complica. Provo al citofono della villa accanto: e mi ritrovo con il muso di un dobermann furibondo infilato tra le sbarre del cancello. Entro in un ristorante, e il proprietario mi dà poche speranze: «La signora Anita sono mesi che non vive più qui». Camerieri con i piedi piatti e il tovagliolo bianco sull’avambraccio come ancora solo da queste parti, servono vassoi di fettuccine fumanti. Ma lo stomaco è chiuso. La faccenda s’è messa male.
La Ekberg non ha un parente, non ha più amici. A metà pomeriggio, ormai alla caccia anche solo di mezzo indizio, ho già telefonato praticamente a chiunque, compreso l’ufficio stampa di Gucci, che un anno prima aveva sponsorizzato il restauro della pellicola ripresentata alla Festa del cinema di Roma. Poi sono io a ricevere una telefonata. Dal Corriere, è l’ufficio centrale: «Allora, Fabri: noi abbiamo lasciato cento righe per la Ekberg. Ti bastano?».
Porca zozza.
Rispondo sulfureo: la Ekberg non c’è, non la trovo, è sparita. «Sparita, scusa, in che senso?». Torno a Roma mortificato. Sconfitto. E incredulo. Anita, dove sei? Mi addormento male, dormo male. Però, in fondo alla notte, s’accende una lucina sul comodino. È il display del cellulare. Entra un sms. Avevo lasciato in giro mille ami. Un amico mi scrive: «Questo, mi dicono, dovrebbe essere il numero della sua ultima badante. 335-877…». Aspetto le 9, compongo il numero. Risponde una donna rauca, malmostosa. «Tu vuoi signora Anita? Io voglio soldi». Certo, okay. Quanto? «Mille euro». Bene, affare fatto. «Io ora dire solo dove sta: poi noi incontrare, tu dare me soldi, io dare a te indirizzo preciso». Perfetto. «Lei sta in casa di cura…». Dove? «Ai Castelli, però io non…».
Ma vattene, va.
Mi faccio bastare questa traccia. Vado su Google e controllo: nella zona dei Castelli romani ci sono 37 case di cura. Mi metto di santa pazienza, inizio a chiamare. Alla sesta telefonata, il centralinista chiede: «Lei, scusi, chi è?». Il nipote. «Ah, ok. Perché da mesi la signora Ekberg non riceve visite. Sì, è qui». Passo a prendere il fotografo Claudio Guaitoli, il tempo di fermarci da un fioraio, e partiamo. Un’ora dopo siamo dentro un corridoio lungo. Luce al neon fioca. Tanfo di disinfettante. Ci sono posti dove la vita smette di essere dolce. L’infermiere, brutale: «La signora Ekberg? Boh. Chi è?». Anita, si chiama Anita. «Ah, sì: sta in camera sua».
Seduta su una sedia a rotelle. I capelli lisci e ancora magnificamente biondi. La pelle bianca, morbida. «E questi fiori? Per chi sono?». Per lei, signora. «Per me?”. Per il suo compleanno. “Oh, sì, certo… giovedì sarà il mio compleanno… ma che bravi, vi siete ricordati di Anita…» (dai suoi occhi si sprigiona un guizzo azzurrino, un lampo di inaspettata vitalità). Prima di lei, le donne non facevano il bagno nelle fontane. Poi tutte hanno immaginato di prendere per mano Marcello Mastroianni e di portarlo sotto una cascata d’acqua. L’Italia stava cambiando. «Una vita fa. Se mi volto, però, non ho rimpianti. Ho amato, pianto, sono stata pazza di felicità. Ho vinto e ho perso. Non ho un marito, non ho figli. Quella suorina che vi ha accompagnato qui è la mia unica amica».
La pioggia riga i vetri. Reparto «lungodegenza», decimo piano: il lago, laggiù, un buco nero. «Un anno fa, si spezzò il femore di sinistra. Poi, a metà agosto, ha fatto crack il destro. Ora stanno cercando di rimettermi in piedi. E pensare che a Fellini piaceva moltissimo come camminavo. Durante le riprese, a Fontana di Trevi, feci su e giù una notte intera, senza mai inciampare. Marcello invece aveva freddo e, per scaldarsi, vuotò una bottiglia di whisky. Cadde tre volte. Alla fine gli fecero indossare gli stivaloni da pesca sotto i pantaloni». Quel film è nella storia del cinema. «Però non è un gran film. La sua notorietà è dovuta solo a quella scena stupenda. E in quella scena, più di Marcello, ci sono io. Ero bellissima, lo so». Frank Sinatra voleva sposarla. «Non mi piace fare l’elenco delle proposte di matrimonio. L’amore è una faccenda privata. Con Gianni Agnelli abbiamo tenuto un segreto tenerissimo per anni. Anche Dino Risi insistette molto per avere un flirt…». Fellini? «Non ho mai capito perché mi scelse. Va bene, ero Miss Svezia, e questo però forse sarebbe potuto bastare ad altri registi, non a lui. Lui leggeva nel cuore degli attori. E li dirigeva come fossero farfalle».
La conversazione è interrotta da un lamento straziante che giunge dalla camera accanto. Anita Ekberg sembra non sentire. Socchiude gli occhi. «Questi fiori sono stupendi». Il fotografo Guaitoli, che ha tenuto la piccola Nikon in tasca, le chiede il permesso di scattare qualche foto (il giorno dopo, faranno il giro del mondo). Lei si mette in posa. Lo sguardo altero. Da diva. Poi, di colpo, scuote la testa. «Adesso, però, sono stanca…».
Un baciamano. Il cigolio di una porta che si chiude.
Morirà quattro anni dopo, in totale solitudine. Le sue ceneri sono nel cimitero di Malmö, in Svezia. Ma noi ancora nel riverbero della tv, a guardarla sotto l’acqua scrosciante. «Marcelo… come here!».