Corriere della Sera, 24 marzo 2024
La difesa necessaria
Nel mezzo di una tornata di elezioni regionali, l’8-9 giugno in Italia voteremo per eleggere il nuovo Parlamento europeo. Per ora l’attenzione degli elettori è concentrata sui voti regionali, che vengono visti come ripetuti sondaggi sul governo: se non si aprirà presto una discussione sui principali temi europei, anche le elezioni di giugno saranno solamente un ennesimo, inutile sondaggio.
I primi argomenti sui quali è probabile che al nuovo Parlamento europeo sarà chiesto di esprimersi sono due: se riattivare, dopo l’esperienza della pandemia, forme di finanziamento di progetti europei tramite debito comune, la difesa è uno di questi, e come eliminare i diritti di veto nel Consiglio europeo che oggi consentono di bloccare anche decisioni che la maggioranza ritiene urgenti.
Durante la pandemia il Consiglio consentì (specificando, per la verità, che l’esperienza era da non ripetere) che la Commissione emettesse debito comune per proteggere lavoratori e imprese durante il lockdown e rimettere in piedi l’economia europea. Il programma Sure finanziò con debito comune i regimi nazionali di disoccupazione e riduzione dell’orario di lavoro e misure di carattere sanitario.
Allora era l’Italia il Paese più colpito dalla pandemia; oggi sono la Polonia e i Paesi baltici i più esposti al rischio di un’invasione russa.
Un finanziamento comune consentirebbe innanzitutto di integrare i nostri sistemi di difesa oggi frammentati fra 27 Paesi i cui sistemi d’arma non si parlano. Consentirebbe anche di risparmiare, raggiungendo economie di scala che ai singoli Paesi sono precluse, col risultato che a vincere sono i produttori americani che godono di un mercato amplissimo che consente loro ingenti economie di scala. La Polonia ad esempio preferisce gli Apache e i Chinook di Boeing agli elicotteri di Airbus. Come primo passo verso una difesa comune, nel 2021 l’Ue istituì il Fondo europeo per la difesa, ma per i sette anni 2021-27 il Fondo dispone solo di 8 miliardi di euro. Il Pentagono spende circa 700 miliardi di dollari l’anno di cui 150 in ricerca e sviluppo.
Il Fondo è comunque un buon inizio perché apre all’utilizzo di risorse europee comuni per finanziare la difesa. «Se vogliamo rafforzare la nostra difesa dobbiamo finanziarla insieme» dice il Commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni. E Ursula von der Leyen ha confermato l’obiettivo di acquisti comuni per almeno il 40% delle forniture militari entro il 2030.
Per costruire sistemi di difesa comune, come per attuare le politiche richieste dalla transizione verde (ad esempio sostituire i motori a combustione interna) le risorse dei singoli Paesi non sono sufficienti. Ricorrere al debito comune è la strada giusta, ed è anche la più equa se si confrontano diverse generazioni. Entrambi i progetti, difesa e transizione ecologica, sono infatti un costo per la nostra generazione, ma ne beneficeranno soprattutto le generazioni future. È quindi giusto che anch’esse contribuiscano al loro finanziamento: lo faranno accollandosi in futuro l’onere di ripagare il debito.
Emissione di debito comune e decisioni nel campo della difesa richiedono però l’unanimità dei 27 Paesi dell’Ue: questo le rende oggi inattuabili. Venerdì scorso al Consiglio europeo la proposta di allargare il Fondo europeo per la difesa facendo ricorso a debito comune non ha raggiunto l’unanimità e il Consiglio ha invitato la Commissione ad esplorare tutte le opzioni possibili per i finanziamenti e a riferire entro giugno. La proposta di ricorrere a debito comune è stata fatta dall’Estonia, trovando il consenso di Italia, Francia, Spagna e Grecia, ma Germania e Olanda restano contrarie. Più aperte, ma non ancora del tutto convinte, Svezia e Finlandia.
Sulla riforma delle regole di voto nel Consiglio europeo ci sono da tempo molte proposte. Il punto di partenza è dare la possibilità ad un gruppo di Paesi di sperimentare una nuova politica purché essa non danneggi gli altri. E questi, se l’esperimento funziona, potranno aderirvi. È accaduto con successo con l’euro e con gli Accordi di Schengen che hanno via, via abolito le frontiere interne all’Ue.
È un metodo che fu proposto dal premio Nobel James M. Buchanan negli anni ’60 («Una teoria economica dei clubs») e studiato, relativamente all’UE, negli anni ’90 («Integrazione flessibile» di Dewatripont, Tabellini ed altri, Center for Economic Policy Research, 1995). È già previsto dal trattato dell’Unione europea che, all’art. 20, consente ad un minimo di nove Stati membri di instaurare una cooperazione rafforzata in un ambito specifico, qualora risulti evidente che l’Unione nel suo insieme non sia in grado di conseguire gli stessi obiettivi entro un termine ragionevole. Una procedura che, nel caso una proposta sia bloccata da uno o più Stati membri che non intendono partecipare, supera l’ostacolo.
Scriveva il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi nel 1954 (Scrittoio del Presidente, p. 89): «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli Stati italiani della fine del quattrocento costarono agli italiani la perdita dell’indipendenza lungo tre secoli; ed il tempo della decisione, allora, durò forse pochi mesi».