La Lettura, 24 marzo 2024
Sul Salon del 1874
Senza saperlo ballavano e si divertivano sull’orlo del baratro, quel baratro che da almeno due settimane aveva già inghiottito e fatto a pezzi l’arte tradizionale. E intanto affollavano (padri, madri, figli, nonni, parenti stretti, semplici conoscenti «e se potevano persino cani e gatti» come aveva raccontato in diretta Louis Clodion su «L’Illustration») le grandiose stanze del Palais des Champs-Élysées (conosciuto anche come Palais de l’Industrie) dove erano state concentrate le 3.657 opere (dipinti, sculture, stampe) dei 1.100 artisti che in quel 1874 avrebbero partecipato all’Exposition publique des ouvrages des artists vivants o, più semplicemente, alla novantunesima edition del Salon a cui gli artisti, non solo francesi, affidavano regolarmente il loro destino dal XVII secolo. Il 15 aprile, appunto due settimane prima dell’inaugurazione del Salon officiel (il primo maggio) , nello studio parigino del fotografo Nadar (al 35 di boulevard des Capucines), si era aperta la prima mostra degli impressionisti che, seppur rifiutati dal Salon, avevano spalancato la strada alla modernità dell’arte, anche se all’epoca non ci fu storia: alla chiusura, due mesi dopo, il Salon aveva incassato (tra biglietti e cataloghi) ben 209.500 franchi dell’epoca, con un prezzo medio di vendita delle opere che oscillava tra gli 800 e gli 8 mila franchi, mentre furono solo 3.500 i visitatori da Nadar con un prezzo medio di vendita di «soli» 144 franchi.
Il racconto di quel Salon officiel è scandito da opere per lo più dimenticate o almeno oscurate dai «piccoli» impressionisti (qualche anno più tardi saranno Claude Debussy e Maurice Ravel a cancellare con la loro musica impressionista la tradizione di Gabriel Fauré e Édouard Lalo) : «Una Torre di Babele», lo definisce all’epoca Henri Fantin-Latour, anche lui pittore assetato di novità che non avrebbe però aderito all’Impressionismo, mentre Théodore Rousseau, membro della stessa commissione giudicante del Salon, confessava: «Le mie impressioni? Un’emicrania straziante, un chilometro di quadri da navigare... solo a pensarci mi viene il mal di mare». La dimensione giusta, quella di un’occasione diventata con il tempo più mondana che artistica, la restituisce un’opera di Camille-Léopold Cabaillot-Lassalle (1839-1902) esposta appunto al Palais (con numero di catalogo 292, attualmente nei depositi del Musée d’Orsay che lo propone in mostra): in una sorta di teatro-nel-teatro il tradizionalissimo Cabaillot-Lassalle (celebre per i suoi ritratti di ricche signore borghesi) mette in scena per l’occasione una stanza del Salon con tanto di pubblico (Le Salon de 1874, olio su tela). I tre personaggi femminili in primo piano (bambina compresa) sono un trionfo di blu marin, verde, turchese con fiocchi, gonne di raso dai tanti risvolti, merletti, ricami, strascichi e deliziosi cappellini in perfetto stile Belle Époque: molto eleganti, certo, ma non sembrano prestare benché minima attenzione ai dipinti alle pareti, così come i personaggi «secondari» (due uomini e un’altra giovane donna) sembrano impegnati nell’osservazione di qualcosa che non vediamo (solo il giovane signore di spalle sembra interessato a un ritratto che compare sul lato destro).
Ma, visto che il Salon officiel è ormai diventato un luogo «dove andare per essere visti», Cabaillot-Lassalle sceglie in qualche modo di «fare cronaca», mettendo in primo piano i pittori e la loro arte. I sei dipinti sulla parete sono infatti sei opere realmente presenti alla fatidica edizione del 1874, frammenti che Cabaillot-Lassalle chiede di realizzare ai «veri» autori: Chrysanthèmes et Pêches di Eugène Petit; Charrette en Forêt di Jules-Jacques Veyrassat; Vallée de Franchard, Fontainebleau di Ernest Guillemer; Le Soir di Jean-Baptiste-Camille Corot; Moulin à Vent, en Picardie di Léon Richet; Portrait de M. E. S di Henriette Browne. Una formula, quella dell’«opera nell’opera», che lo stesso artista replicherà l’anno successivo con Le Salon de Sculpture (sempre dedicato all’edizione del 1874) .
Al Salon officiel del 1874 non ci sarà però soltanto la pittura borghese di Cabaillott-Lassalle, di Jules-Bastien Lepage (Portrait du grand-père de l’artiste) o dello stesso Fantin-Latour (Nature morte avec torse et fleurs). A farla da padrona sarà infatti la Grande Pittura, quella di soggetto storico, mitologico e religioso, anche perché (per tradizione) lo Stato francese sin dall’inizio aveva deciso di acquisire un buon numero di opere esposte (quell’anno saranno 167) destinandole a istituzioni pubbliche dove l’arte doveva essere molto «morale» (a firmarle saranno artisti all’epoca molto in voga come Henri Lévy, Albert Maignan, Antoine Chintreuil).
Con la pittura storica il Salon officiel (nato nel 1667 con la prima esposizione organizzata dall’Accademia reale) prosegue nel solco di quella tradizione che già nel 1748 aveva istituito una commissione incaricata di salvaguardare il passato della «grande pittura» e di esercitare un controllo sulla moralità delle opere proposte. A rendere ancora più appetitosi per i pittori i temi storici, mitologici e religiosi ci saranno i premi (una settantina di medaglie di prima, seconda e terza classe ogni anno) che toccheranno regolarmente a opere di gusto dichiaratamente accademico: in quel 1874 il vincitore morale del Salon sarà il Martyr de Saint Laurent di Pierre Lehoux, quadro bellissimo nell’esecuzione e nell’impianto, ma anche molto antico nel gusto (Lehoux sembra guardare in particolare al Rinascimento italiano di Perugino, Donatello e Pontormo, ma anche al barocco di Guercino).
Altrettanto riuscite, ma anche altrettanto antiche, saranno altre opere esposte quell’anno: Homère et son guide di William Bouguerau; La Vierge à l’Enfant et saint Jean-Baptiste di Ferdinand Humbert; Le moine qui sculpte un Christ en bois di Édouard Dantan; Le Bon Samaritain di Jean-Jacques Henner; L’Éminence Grise di Jean-Léon Gérôme; Satyre joue avec une bacchante di Henri Gervex; Eros, Cupido di Jean-Jules-Antoine Lecomte du Nouÿ. Nel catalogo che accompagna la mostra al Musée d’Orsay Kimberly A. Jones, una delle curatrici che si occuperà della trasferta statunitense dell’esposizione (dall’8 settembre al 19 gennaio 2025 alla National Gallery of Art di Washington), porta come esempio di un tentativo riuscito di svecchiare la grande pittura storica quello messo in atto, sempre al Salon officiel, da Henri-Paul Motte che ne Le Cheval de Troie non si concentra tanto sui personaggi ma piuttosto su una rappresentazione tecnico-militare dell’episodio. La stessa studiosa cita il critico Charles Blanc che, poche settimane prima dell’apertura del Salon, raccontava così lo stato dell’arte francese del tempo: «Il progresso nell’arte, quando è possibile, nasce dalla tradizione, ma anche dal superamento di quella stessa tradizione. È molto pericoloso rompere totalmente con il passato, ma è altrettanto pericoloso guardare al passato con ammirazione incontrollata».
Come accade ormai per ogni Biennale, per ogni mostra, per ogni grande asta, anche in quel lontano 1874, l’arte faceva soprattutto discutere. Prima dell’inaugurazione, ad esempio, si parlava degli ammessi e degli esclusi da una giuria (guidata da Joseph-Nicholas Robert-Fleury) che è stata, da sempre, uno degli elementi più controversi del Salon officiel: nel 1863 la giuria aveva prodotto verdetti così rigidi (escludendo di fatto tremila opere) che era dovuto intervenire lo stesso imperatore Napoleone III per organizzare una mostra dei dipinti rifiutati, le Salon des Refusés che aveva accolto Le déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet, suscitando grande scandalo per la «provocazione» di una donna nuda accanto a due uomini elegantemente vestiti.
In quel 1874 la giuria non aveva ancora una volta, ad esempio, premiato donne e aveva escluso due delle quattro opere presentate proprio da Manet (che non aveva voluto partecipare alla mostra da Nadar proprio per concentrarsi sul Salon officiel). Dal Palais des Champs-Élysées furono esclusi Hirondelles e Bal masqué à l’Opéra, mentre vennero ammessi la litografia Polichinelle e quel capolavoro assoluto che è Le Chemin de fer (oggi nella collezione della National Gallery di Washington). Sarà proprio quell’incredibile doppio ritratto a provocare le critiche più feroci. Tra i pochi a difenderlo, l’amico Émile Zola che in una lettera sintetizza lo spirito del Salon officiel: «In mezzo alle tele vicine, lascia il segno ai nostri occhi ignoranti, viziati dalle gentilezza dell’arte di oggi. E credo che se al Salon ci fosse un Goya, in molti si contorcerebbero allo stesso modo».