La Lettura, 24 marzo 2024
Biografia di Evelyn Waugh
Che Dio ci liberi, o almeno ci protegga, dagli scrittori smaniosi di esprimersi a ogni costo su qualsiasi argomento. Quelli che in assenza di grandi cause cui votarsi anima e corpo si contentano dell’ordinaria amministrazione offerta dall’attualità. Guai a privarli del quotidiano fatto di cronaca da spolpare come un osso succulento. Non c’è tema, per frivolo che sia, su cui non si sentano in diritto di intervenire. Guidati dalla fiducia in sé stessi, non hanno ritegno a parlare per conto dell’umanità. Da qui gli strati di retorica, pensosità e indignazione con cui farciscono i loro sermoni, per non dire del ricorso smodato alla prima persona plurale. Mi par quasi di sentirli: faccio lo scrittore, dopotutto. Mi pagano per sapere quel che c’è da sapere, per esecrare quel che è giusto esecrare.
A questo club di parassiti logorroici se ne oppone un altro i cui affiliati, per contro, appaiono sardonici fino alla scorbutichezza. Più che di misantropia, parlerei di disinteresse per il prossimo. Non c’è futuro, per quanto indecifrabile, né presente, confortevole o annoso che sia, che possa competere con i fasti del passato.
Ci piace chiamarli conservatori, ma il più delle volte a renderli così irritabili è la nostalgia di epoche remote: mai esistite forse, e ciò nondimeno, o forse in virtù di questo, così rimpiante. Sono talmente persuasi che il meglio sia già avvenuto che, nel guardarsi intorno accigliati e perplessi, non possono fare a meno di scuotere la testa.
Date tali premesse, non sarà difficile trovare la giusta collocazione per un tipo schifiltoso come Evelyn Waugh. Se volete entrare nel suo magico mondo, assorbirne umori e pregiudizi, prendere le misure al suo proverbiale caratteraccio, se non vedete l’ora di impratichirvi con il suo spirito caustico e gustarne la prosa melodiosa, vi consiglio di cominciare da qui, da questo delizioso passo, se non altro perché sa tanto di autoritratto: «I suoi gusti più forti si esprimevano al negativo. Detestava la plastica, Picasso, i bagni di sole e il jazz: insomma tutto ciò che era successo nel corso della sua vita. La fiammella di carità che gli veniva dalla religione era appena sufficiente per attenuare il suo disgusto trasformandolo in noia» (La prova di Gilbert Pinfold).
Qualora non vi bastasse, date un’occhiata a ciò che scrive nell’autobiografia: «Essere nato in un mondo pieno di bellezza e dover morire in mezzo alle brutture rappresenta il destino comune di tutti noi esuli» (Autobiografia di un perdigiorno). Ma davvero il mondo era così favoloso quando, nell’autunno del 1903, Catherine Charlotte Raban diede alla luce Evelyn Arthur St. John Waugh? Morta la Regina Vittoria da un paio d’anni, l’impero britannico era mollemente scivolato nell’«età edoardiana»: una transizione abbastanza confusa e feconda da favorire l’avvento di un’epoca artisticamente straordinaria, dominata dagli astri di T. S. Eliot, James Joyce e Virginia Woolf. Il tutto mentre sul piano politico le cose per i sudditi di Sua Maestà prendevano una brutta china. L’egemonia del più grande impero coloniale della storia umana aveva le ore contate: incalzato dagli appetiti di giovani superpotenze, minacciato da guerre mondiali e movimenti di liberazione, era sul punto di collassare.
Uno schianto che i patriottici ragazzi della generazione di Waugh, della sua cerchia e della sua formazione, non avrebbero mai superato completamente. Non c’è pagina di Waugh che non rechi traccia del disprezzo per il mondo circostante, e per l’epoca toccatagli in sorte. Passando in rassegna vecchi cimeli di famiglia, eccolo sdilinquirsi: «Non c’era nulla che valesse granché, ma ogni oggetto apparteneva a un’altra epoca che io istintivamente, già allora, riconoscevo superiore alla mia» (Autobiografia di un perdigiorno).
Insomma, Waugh è fatto così. Animato da un feroce disfattismo, non vede l’ora di esprimere la sua avversione per qualsiasi novità, persino per quelle più innocue e promettenti, come, ad esempio, «l’avvento del sonoro al cinema», reo di aver «fatto arretrare di vent’anni l’unica arte vitale del secolo» (Etichette).
Un passatismo, venato di nostalgie vittoriane, che non gli impedì di godere a pieno i frutti di una giovinezza modernamente altolocata, e di coltivare il gusto della bellezza inculcatogli da una famiglia aperta, colta e benestante (non ricca). Il padre di Evelyn ricoprì per quasi un trentennio il ruolo di direttore generale della Chapman & Hall: «Una stimata ancorché decrepita casa editrice» che ai bei tempi aveva pubblicato niente meno che Dickens e Thackeray.
Stando ai ricordi del figlio, Arthur Waugh era un uomo distinto, affabile, generoso, afflitto dall’asma e da una precoce pinguedine. Spogliatosi presto di ogni ambizione artistica, Arthur si era votato con devozione agli splendori della poesia romantica e alla magia del teatro elisabettiano. Passioni che amava condividere con chiunque godesse della sua compagnia, a cominciare dai figli naturalmente, cui infliggeva frequenti letture, impreziosite da una dizione degna di Sir John Gielgud: «In queste interpretazioni della prosa e del verso britannici, l’incomparabile varietà del vocabolario inglese, le cadenze e il ritmo della lingua saturano la mia giovane mente, in modo tale che io non ho mai pensato alla letteratura inglese come a una materia scolastica, bensì come una sorgente di pura gioia. Un’eredità che non ha mai perso valore» (Etichette).
Facendo il bilancio della sua carriera scolastica, fortemente sbilanciata verso gli studi umanistici, Waugh commenta: «La mia educazione mi pare che fosse il tirocinio a un unico mestiere: quello dello scrittore inglese di prosa. È sorprendente che così pochi di noi lo siano diventati» (Etichette). Sdegnoso, anti-convenzionale, scarsamente versato agli studi eruditi, Evelyn manifestò una spiccata attitudine ad attività extracurricolari non proprio virtuose ma assai spassose: alcol, tabacco, gioco d’azzardo, cameratismo, fornicazione.
Sono gli anni di Oxford, quelli in cui maturano le passioni che Waugh coltiverà per il resto della sua vita: scrittura, snobismo e cattolicesimo. Visto che a interessarci è soprattutto la prima, lasciate che evada le altre due, per molti versi tra loro intrecciate, e comunque indispensabili a comprendere l’essenza di una così precoce e formidabile vocazione artistica.
Che brutta bestia è lo snobismo! Non sai mai da che parte prenderlo, né come domarlo. Non a caso si tratta di una delle attitudini morali più sviscerate dalla letteratura, soprattutto da un certo periodo in poi. Con il trionfo del romanzo realista e della poesia simbolista, infatti, il tema dello snobismo si è fatto ineludibile. C’è chi ha sentito l’esigenza di metterlo in scena per esecrarlo, e chi se n’è lasciato così contagiare da farne un vessillo. Alla prima famiglia appartengono geni fortemente risentiti come Thackeray, Balzac, Stendhal, Eliot, Proust. La seconda è formata da spiriti inquieti e bizzarri: Byron, Baudelaire, Pater, Cocteau, Mishima.
In quanto a Waugh, bisogna dire che al solito è perfettamente a suo agio nei panni dell’epigono. A dispetto delle apparenze, il suo snobismo è abbastanza smaliziato da non prendersi troppo sul serio (naturalmente sto parlando di quello che traspare dalla sua prosa). E proprio per questo corre forte il rischio di apparire, soprattutto da chi ne avversi i presupposti, pretenzioso e ridicolo.
La frequentazione di certi goliardici club giovanili gli fornisce il passe-partout per accedere, dalla porta principale, ai salotti della buona società londinese. Poco più che ventenne, i suoi amici sono baronetti, duchesse, rampolli dell’alta borghesia ebraica. All’inizio degli anni Venti, la stampa britannica, proverbialmente pettegola, s’innamora di questi efebici scavezzacollo battezzandoli the bright young people.
A questo periodo della sua vita – zeppo di bizzarrie e dissolutezze – Waugh dedica il secondo romanzo: Corpi vili. A colpire nel libro di un autore non ancora trentenne è la disinvoltura espressiva, la spregiudicatezza formale e la brillantezza dei dialoghi. A dominare il romanzo è lo spirito gaudente e disimpegnato degli «anni Venti» contraddistinto da un esecrabile senso di impunità. Da qui l’ampio ricorso a un registro surreale pervaso di fantasie decadenti di cui, se permettete, vorrei offrirvi un mirabile esempio: «Il Capo dell’Opposizione di Sua Maestà giaceva sprofondato in un sopore glorioso, reso splendido da sogni di fantasie orientali: casa di carta dipinta, draghi dorati e giardini pieni di mandorli in fiore; membra dorate e occhi a mandorla, umili e carezzevoli; piccolissimi piedi dorati tra fiori di mandorlo; tazzine dipinte colme di tè dorato; voci dorate che cantavano dietro un paravento di carata dipinta; piccole mani dorate umili e carezzevoli e occhi a mandorla nel cuore della notte» (Corpi vili).
Passando in rassegna le avventure dei giovanissimi eroi di Corpi vili viene spontaneo pensare alle simultanee baldorie dell’«età del jazz» trasfigurate dal genio di Scott Fitzgerald. Un raffronto proposto da molti critici di cui Waugh si mostrò a più riprese scontento. Temendo forse che lo si potesse accusare di aver tratto ispirazione dai primi romanzi di Fitzgerald, giurava di averli letti molti anni dopo la loro pubblicazione.
Se per certi versi le affinità sono evidenti, per altri appaiono aleatorie. È vero, le sfrenatezze e le stravaganze cui si lasciano andare i giovani rampolli di Fitzgerald e Waugh sono il frutto del medesimo state of mind: lo specchio di un’epoca tanto frivola quanto dissennata e impreparata al disastro. Ma ecco che a un’occhiata meno superficiale emergono evi-denti difformità prospettiche. Se Fitzgerald è pieno di fervore romantico – tipico di chi trasfigura un mondo fiabesco cui sente di non appartenere – Waugh non indulge mai al sentimentalismo. Corpi vili è un romanzo in cui l’umorismo acido e visionario prende il sopravvento sul pathos morale e sulla plausibilità narrativa. Per questo, a dispetto del Grande Gatsby, è privo di senso del tragico. Il disincanto di Waugh, come abbiamo visto, non è una conquista, ma un pregiudizio. Da bravo erede del dandismo vittoriano, gli piace dare sfoggio di stizza e scanzonatezza.
Ecco un’altra prova di come per lui lo snobismo sia l’abito comodo da indossare prima di mettersi a scrivere, e allo stesso tempo schermo protettivo e punto di osservazione privilegiato. Tutto si può dire del buon Evelyn ma non che soffra dei complessi di inferiorità che affliggono il collega americano. Il fascino esercitato su di lui dall’aristocrazia inglese, per non dire del disprezzo per i parvenu, è bilanciato da un giudizio di merito oltremodo severo. Lui, al contrario di Fitzgerald, non idolatra i milionari e la loro debosciata progenie. Anzi, si direbbe quasi che a sedurlo dei ricchi gentiluomini della sua cerchia non sia il privilegio dinastico e il primato finanziario, ma la smaccata inanità di cui danno prova a ogni piè sospinto. Non a caso gli eroi più riusciti di Waugh sono degli straordinari esemplari di imbecilli. Di rado Waugh li giudica, limitandosi a sfotterli, torturarli e compatirli (in quest’ordine preciso). Come Flaubert prima di lui, Waugh ha un debole per gli scemi e i poveri di spirito. Ma mentre Flaubert li cerca nel ceto borghese o negli strati più umili della provincia francese, Waugh va a scovarli nelle dimore patrizie di Belgravia o nelle fastose magioni che deturpano l’amena campagna inglese.
Personalmente ho un debole per Tony Last: uno degli imbecilli più riusciti della narrativa del Novecento. Lui è il soave, insipiente, scalognato eroe di Una manciata di polvere, quarto romanzo di Waugh, spassoso e struggente a un tempo, con un finale quanto mai celebre che da solo vale il prezzo del biglietto.
Sono piccoli capolavori come questo (cui aggiungerei volentieri il celeberrimo Il caro estinto) ad aver garantito a Waugh la fama postuma di massimo scrittore satirico inglese del ventesimo secolo. Un attestato più che meritato ma a mio avviso un tantino riduttivo. Non solo perché la sua opera, come stiamo per vedere, è zeppa di romanzi e racconti di altro genere, ma perché per capire davvero il suo posto nel canone bisogna interrogarsi sull’essenza delle sue satire. Waugh non persegue fini pedagogici e moraleggianti. Non è un censore, né un castigatore di costumi. Almeno in questo, è scorretto considerarlo un epigono di Jonathan Swift o, su un altro piano, di Charles Dickens. Il suo umorismo feroce e implacabile è figlio del cattivo umore e del dispetto, entrambi ispirati dallo snobismo. Un genere di snobismo abbastanza tipico che spinge chi lo pratica a collocarsi sempre dalla parte del torto, e contro il senso comune. Questo spiega molte delle sue spregevoli scelte politiche, a cominciare dalla singolare simpatia dimostrata per qualche tempo nei confronti del fascismo mussoliniano. Per non parlare delle intemperanze razziste, misogine e antisemite che emergono qua e là nei suoi romanzi. Idee – occorre precisarlo – estemporanee, senza nerbo, prive di smalto. Intemperanze buttate lì per scandalizzare, in odio al buonsenso, e infatti il più delle volte smentite dai fatti. Su una cosa non ho dubbi: l’autore di Misfatto negro e di Compassione era tutto fuorché un fascista.
Un discorso per molti versi analogo può essere fatto per il cattolicesimo. Dato che non si è mai peritato di spiegarci in modo esaustivo cosa abbia indotto un giovanotto di buona famiglia come lui, cresciuto nell’anglicanesimo, a cambiare casacca diventando cattolico, non ci re-sta che cercare una risposta nei suoi romanzi. E qui se possibile le cose si complicano ulteriormente. Al contrario di altri scrittori cattolici della sua generazione o di quella precedente (Chesterton, Mauriac, Bernanos, Greene, Lewis, limitando l’indagine ai narratori) il cui credo religioso ha avuto un impatto evidente sulla vocazione artistica e sulle scelte for-mali, la devozione di Waugh appare, da un punto di vista estetico, quanto mai ininfluente. Difficile a questo punto non affidarsi all’impertinente commento di Guido Almansi: «Quanto al suo spirito religioso, o falsamente religioso, i suoi nemici dicono che la sua conversione al cattolicesimo fu dovuta soprattutto al suo amore per la pompa delle cerimonie, la preziosità degli arredi, il fascino del rituale e lo splendore delle case patrizie appartenenti alle vecchie famiglie cattoliche. E poi, se tutti sono protestanti, è giusto per questo snob essere il contrario, in odio alla moltitudine e ai singoli individui, che si tratti del minatore del Galles o del Primo ministro».
Date le circostanze, come non dare manforte ai nemici di Waugh? Nei suoi libri non c’è traccia dello spirito evangelico che ti aspetteresti da un convertito così devoto. A sostegno ulteriore dei suoi detrattori (un vero esercito), basta ricordare l’impegno profuso da Waugh contro il rinnovamento della Chiesa promosso dal Concilio Vaticano II. Di tutto ha bisogno, il nostro Waugh, ma non di una Chiesa rinnovata. A lui la Chiesa piace così com’è, così com’è sempre stata: pomposa, iniqua e classista. Vi avverto: qualora voleste cercare una risposta adeguata nel capitolo dell’autobiografia intitolato Breve storia delle mie opinioni religiose, restereste a bocca asciutta. Si tratta di una manciata di pagine – al solito, scritte in modo splendido – desolatamente prive di ogni genuino abbandono e minate da un’elusività davvero irritante. Ribadisco: lo snobismo è una brutta bestia.
Farei un torto a Waugh, e all’omaggio che mi sono messo in testa di tributargli, se non dedicassi qualche riga alla sua passione più genuina: il viaggio. Da buon gentiluomo inglese, figlio del suo ceto e della sua epoca, Evelyn è stato un infaticabile giramondo e, per motivi diversi (finanche alimentari), un travel writer meraviglioso.
No, non sbadigliate. Lo so, ne sono consapevole, il reportage di viaggio è un genere in disgrazia, svilito e reso obsoleto dalle innovazioni tecnologiche dell’ultimo mezzo secolo. Quale editore sano di mente, oggi, finanzierebbe il Grand Tour di uno scrittore? Nell’era dei social media, delle compagnie low cost, della sfida lanciata allo spazio, l’esotismo sprigiona lo stesso fascino di una seduta odontoiatrica.
In un certo senso, Waugh appartiene all’ultima generazione di prosatori che hanno potuto permettersi di visitare luoghi lontani al solo scopo di raccontarli. E il bello è che lo ha fatto alla sua maniera, sfoggiando il solito scetticismo, la consueta insofferenza, ma anche l’immancabile umorismo e senso del piacere. Per stravaganti che siano, le poche opinioni che coltiva sull’arte di viaggiare sono incrollabili: adora le navi, detesta i treni. In quanto agli aerei, considera i panorami che offrono durante il decollo assai eccitanti, ma via via più tediosi e deludenti. Parigi è fasulla, Barcellona incantevole, Taormina così antipatica che è meglio tenersene alla larga. Capace di fugaci entusiasmi, non ha rispetto per niente e per nessuno, soprattutto per le mete di grido raccomandate dai tour operator. «Andai a Pompei, di cui tutti sanno tutto. Mi parve che la cosa più interessante fosse lo stampo in gesso del cane morto per soffocamento» (Etichette).
«Le piramidi erano a poche centinaia di metri, imponenti per mole e per fama; faceva un curioso effetto abitare così vicino a cose tanto illustri; era come avere il principe di Galles al tavolo accanto al ristorante; fingevi di non farci caso, e lanciavi di continuo occhiate furtive per vedere se c’erano ancora» (Etichette).
Insomma, eccolo qui il nostro solito incorreggibile Waugh! È talmente lungimirante che, ad appena ventotto anni, in anticipo di parecchi decenni rispetto al celebre reportage di David Foster Wallace, pubblica la cronaca di una lunga crociera nel Mediterraneo che in quanto a perfidia e improntitudine non ha niente da invidiare ai suoi romanzi migliori: «Uno dei principi della ristorazione a bordo sembra essere che i passeggeri vanno nutriti ogni due ore e mezza. A terra l’uomo civile si contenta, suppongo, di due o al massimo tre pasti al giorno. Sulla Stella pareva che tutti non facessero che mangiare» (Etichette).
«Un tipo molto interessante che abbonda sulle navi da crociera è la vedova facoltosa di mezza età. I suoi figli sono felicemente relegati in fidati collegi; i domestici sono turbolenti; lei si trova a disporre di più denaro di quanto fosse avvezza in passato; i suoi occhi indugiano sulla pubblicità delle compagnie di navigazione» (Etichette).
Leggendo questi passi vien da chiedersi: cosa penserebbe Waugh della piega presa dal turismo di massa in questi primi scampoli di millennio? Probabilmente troverebbe tutto molto indigesto. Del resto, ebbe tutto il tempo di accorgersi che qualcosa era cambiato: sia in lui che nel mondo. Aveva da poco superato i quarant’anni quando annotò amaramente: «Sono stato un giovane tipico del mio tempo: si viaggiava perché ci veniva naturale farlo. Sono contento di averlo fatto quando viaggiare era un piacere» (Quando viaggiare era un piacere).
I lettori di Waugh si dividono in due fazioni: quelli che reputano Ritorno a Brideshead il suo capolavoro, e quelli che con la morte nel cuore, serrando i denti, lo ritengono un’occasione mancata, oltre che il suo più ambizioso fallimento. Ciò su cui tutti concordano è che si tratta di un romanzo fondamentale: diverso da tutti gli altri, forse non per caso situato a metà del suo itinerario artistico, come una sorta di spartiacque tra un periodo e l’altro.
Per ora preferisco non partecipare alla disputa, tenendo per me ciò che penso lasciando la scena a Edmund Wilson. Si dà il caso, infatti, che su questo famoso romanzo Wilson abbia scritto un’altrettanto famosa stroncatura dalle colonne del «New Yorker». Ora, qualcuno potrà giudicare sconveniente che un prefatore, per introdurre il romanzo affidato alle sue cure, per prima cosa citi una recensione negativa. In circostanze normali forse la penserei così anch’io. Ma qui è di Edmund Wilson che parliamo, e di Evelyn Waugh. Due pesi massimi. Uno scontro fra titani. Occorre notare, inoltre, che il pezzo di Wilson, intitolato Splendori e miserie di Evelyn Waugh, non è un’invettiva astiosa, bensì la requisitoria di un amante deluso. Sono pochi gli scrittori di lingua inglese della sua epoca che Wilson consideri di prim’ordine: Waugh, con tutte le cautele del caso, è tra questi. Del resto, le perplessità di Wilson, in merito a Ritorno a Brideshead, risultano particolarmente stimolanti perché aprono il campo a una specie di disputa dottrinaria fra stroncatore e stroncato. Si vede che l’ateo, illuminista, radicale critico americano ha un conto in sospeso con il bigottismo cattolico del narratore inglese, soffuso com’è di snobismo aristocratico. E dato che Ritorno a Brideshead è il libro in cui, più di qualsiasi altro, Waugh dà conto della sua conversione, affibbiandola in un gioco di specchi al suo protagonista, ci sta che Wilson ne provi disgusto.
Ma prima di entrare nel merito, sarà bene dire due o tre cose sul romanzo. Poiché non sono molto bravo nei riassunti, affido volentieri l’incombenza a Wilson che in questo genere di cose è un fuoriclasse: «Charles Ryder, un ufficiale inglese, stanco della vita militare, si trova destinato nei pressi di una grande villa di campagna trasformata in caserma. In quel luogo egli era solito un tempo recarsi in visita; la sua vita, infatti, è stata profondamente legata a quella della famiglia cattolica che lì abitava. A questo punto la narrazione diventa retrospettiva e torna al 1923, epoca in cui Charles Ryder era a Oxford dove conobbe l’ultimogenito dei Marchmain, divenuto il suo più intimo amico. Tutta questa prima parte è brillantissima, un po’ alla maniera del Waugh che conosciamo, un po’ secondo un gusto nuovo più vicino a Scott Fitzgerald e Compton Mackenzie. L’epoca è la stessa celebrata da questi due scrittori più anziani, ma osservata qui dalla prospettiva dei desolati e inariditi anni Quaranta; sicché ogni cosa – la libertà, il divertimento, le varie esaltazioni della giovinezza – assume un che di remoto, di patetico» (Saggi letterari, 1920-1950).
Questo in soldoni è il contesto del romanzo il cui intreccio non è altro che la storia dei rapporti – talvolta idilliaci, altrimenti burrascosi – tra Charles Ryder, nel frattempo diventato un pittore famoso, e questa famiglia tanto ricca e nobile quanto cattolica e disfunzionale. Dal padre, l’affascinante Lord che – abbandonata la moglie per un’amante inadeguata – si è ritirato in una fatiscente dimora veneziana, a Sebastian, il rampollo cadetto afflitto dal demone dell’alcolismo. Da Lady Marchmain, snobissima e dolentissima castellana incline a scenate petulanti, a Cordelia, la figlia arcigna e devota. Su tutti domina la bellezza di Julia, la sorella capricciosa per amore della quale Charles manderà in frantumi il suo matrimonio.
Per dirla in modo spiccio, a disturbare Wilson è il tanfo di incenso e di sagrestia che da un certo momento in poi il romanzo prende a emanare. In effetti, una volta che Charles entra nelle grazie della famiglia Marchmain, si rende conto che ogni suo componente incarna un carattere del cattolicesimo: l’apostata, il peccatore, la penitente, la buona samaritana e via discorrendo... Pian piano, con l’emergere di questo tema, la prosa di Waugh si fa corriva, melensa e retorica. Almeno questa è l’idea di Wilson che, per supportarla, offre diversi esempi non banali.
Al netto di qualche ragione, la posizione di Wilson non mi sembra convincente. Se è vero, come lui dice, che il romanzo corre forte il rischio di apparire «un vero e proprio opuscolo di propaganda cattolica», che senso ha accusare il suo autore di non essere riuscito a regalare al protagonista «un’autentica esperienza religiosa»? Da tempo abbiamo imparato a non tenere in grande considerazione le cosiddette intenzioni artistiche. Ammesso che Waugh volesse davvero scrivere una sorta di apologia pascaliana, con tanto di conversione finale, è del tutto evidente che ha mancato il bersaglio. Ma ripeto: perché dolersene? Perché aspettarsi da Waugh la tensione spirituale di Greene o la tormentata introspezione di Bernanos? È chiaro che, a dispetto dei suoi intendimenti, Waugh non è riuscito a scrivere il romanzo a tesi che forse aveva in mente. In uno splendido paradosso, è proprio il fallimento dell’autore a garantire il successo dell’opera. Dobbiamo ringraziare il cielo che Waugh non abbia la stoffa dell’ideologo e del predicatore. Niente come questo Ritorno a Brideshead è in grado di testimoniare come la sua devozione sia posticcia, l’ennesima impostura di uno snob impenitente. Ammesso che qua e là il narratore del romanzo si mostri troppo indulgente nei confronti di questa famiglia, resta il fatto che, dalle sue notazioni, i Marchmain escono con le ossa rotte. Wilson sostiene che, sull’altare del suo programma religioso, Waugh sacrifichi il genio satirico e la proverbiale brillantezza stilistica. A me pare che avvenga l’esatto contrario: sull’altare del genio satirico e della brillantezza stilistica, Waugh sacrifica il suo programma religioso.
Per questo ritengo che il cuore del romanzo sia da ricercarsi altrove. La natura dell’apprendistato di Charles Ryder è decisamente più profana di quanto lui stesso non sia disposto ad ammettere. L’amicizia con Sebastian prima, l’amore per Julia poi, sanciscono una sorta di palingenesi morale il cui fulcro non è certo l’ortodossia cattolica, bensì l’idealismo aristocratico. È Charles stesso, in un accesso di lirismo retrospettivo, a confessarlo: «Avevo vissuto un’infanzia solitaria e una fanciullezza costretta dalla guerra e offuscata dal lutto; al duro celibato dell’adolescenza inglese, alla prematura dignità e autorità del sistema scolastico, avevo aggiunto una personale tendenza alla mestizia e alla cupezza. Ebbene, quel trimestre estivo con Sebastian era come se mi avesse dato un assaggio di ciò che non avevo mai conosciuto, un’infanzia felice, e benché i suoi giocattoli fossero camicie di seta sigari liquori e le sue marachelle figurassero ai primi posti fra i peccati gravi, c’era in noi una vena d’infantile freschezza assai prossima alla gioia dell’innocenza» (Ritorno a Brideshead).
Quella di Charles (e in controluce di Evelyn) è una scelta di campo. Dato il contesto, Sebastian è l’angelo che fuori tempo massimo, un attimo prima della caduta, spalanca all’amico i cancelli dell’Eden. E mica di un Eden qualsiasi, ma di un Eden perduto.
«Era incantevole, di quella bellezza ambigua che nell’estrema giovinezza è un inno all’amore e che sfiorisce al primo vento gelido. La stanza era stracolma della più strana accozzaglia di oggetti – un armonium in una cassa gotica, una zampa d’elefante come cestino per la carta, una cupola piena di frutta di cera, due vasi di Sèvres spropositatamente grandi, dei disegni incorniciati di Daumier – contrasto accentuato dall’austera mobilia del college e dalla grande tavola da pranzo. La mensola del camino era coperta di biglietti d’invito da parte di signore londinesi. (…) La compagnia si raccolse. Erano tre matricole di Eton, giovanotti amabili, eleganti e compassati che la sera prima erano stati a Londra a ballare e ne parlavano come del funerale di un parente stretto ma non amato» (Ritorno a Brideshead).
Forse solo Vladimir Nabokov è stato capace di raggiungere altrettanta intensità lirica nel descrivere i fasti della giovinezza. Non a caso la reazione di Charles quando, dopo un’incomprensione con Lady Marchmain, viene allontanato da Brideshead è quella di un Adamo in gramaglie: «(…) Sentii che mi lasciavo dietro una parte di me e che, ovunque fossi andato, ne avrei sempre sentito la mancanza e l’avrei ricercata disperatamente, come si dice facciano i fantasmi, che frequentano i luoghi dove hanno sotterrato dei tesori materiali senza i quali non possono pagarsi il transito per l’aldilà».
Non si capisce Waugh se non si tiene conto di questo sguardo inesorabilmente rivolto al Paradiso perduto. Le ultime cinquanta pagine di Ritorno a Brideshead non sono come dice Wilson «assurde fino alla stravaganza, di un’assurdità che sarebbe degna del miglior Waugh se non pretendesse – dispiace doverlo dire – d’esser presa sul serio». Un parere di tale severità non può essere giustificato dai languori religiosi di Waugh ma dal pregiudizio ateo del suo stroncatore. Dicevo, le ultime cinquanta pagine non sono – e si guardano bene dall’esserlo – l’apice di un sereno ravvedimento spirituale. Le ultime cinquanta pagine sono un tributo a un mondo irrimediabilmente scomparso e mai abbastanza rimpianto.
Mario Fortunato ha scritto che Waugh incarna il paradosso «di un uomo che amava pensarsi come un conservatore, non essendolo affatto». In un certo senso, al netto di tutto ciò che ho scritto fin qui, a proposito dell’inflessibile tradizionalismo di Waugh, ha ragione. È strano come, alla resa dei conti, gli individui ossessionati dal passato abbiano uno sguardo sul presente immensamente più lucido di qualsiasi progressista. Forse perché, come il cigno di Baudelaire, scevri da aspettative e armati del giusto disinganno, possono godere della dolorosa, privilegiata prospettiva concessa agli esuli.