Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 23 Sabato calendario

Il fronte inatteso


Da una scintilla, l’immane incendio. Nei sussidiari di tanti anni fa, l’immagine di Gavrilo Princip che spara all’arciduca erede al trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando, facendo precipitare il mondo sul piano inclinato che portò alla Prima guerra mondiale, era questa.
Difficile non pensare a quella scintilla guardando le immagini che arrivavano ieri sera da Mosca, con gli attentatori che scelgono come primo bersaglio i senzatetto che dormivano all’addiaccio nella piazza del centro commerciale Crocus, e poi vanno avanti, sparando all’impazzata.
Viviamo tempi orribili, con addosso la sensazione che qualcosa di ancora più brutto possa ben presto accadere. In cuor nostro speriamo che non sia così, operiamo censure su noi stessi, ci illudiamo di non essere davvero sul baratro di un nuovo conflitto globale. Poche settimane fa, dovendo per ragioni di spazio accorciare l’intervista a Grigorij Yavlinski vecchio navigatore della politica russa, furono tagliate le ultime righe, perché sembravano le meno importanti. Alla domanda su come immaginava il suo Paese dopo le elezioni presidenziali dall’esito scontato, il presidente e fondatore del partito liberale e pacifista Yabloko rispose che nel futuro prossimo temeva tensioni e persino attentati dovuti a motivi religiosi oppure etnici.
Durante quel colloquio, Yavlinski invitò a non sottovalutare un episodio in apparenza minore, nel disastro quotidiano di quest’epoca. Faceva riferimento all’assalto antisemita avvenuto lo scorso 29 ottobre in Daghestan, quando una sessantina di facinorosi tentò di impedire l’atterraggio di un aereo proveniente da Israele. Nel Caucaso sempre più islamico, secondo lui qualcosa si stava risvegliando. Appariva esagerata, la cupezza di quella profezia, soprattutto alla luce della pace interna imposta e mantenuta da Vladimir Putin, che sulla sensazione di tranquillità del suo popolo ci ha costruito la sua ascesa personalistica e autoritaria.
Pochi giorni dopo, arrivarono i dispacci dei Servizi segreti inglesi, che lanciavano un deciso avvertimento sulla eventualità di attentati dopo le elezioni presidenziali. Lo scorso 7 marzo, l’ambasciata americana a Mosca si spinse un passo più avanti, invitando i propri concittadini a lasciare il Paese, e nel caso non potessero farlo, a stare lontani dai grandi assembramenti di folla, come i concerti. Le intelligence straniere avevano intuito che qualcosa di molto brutto poteva accadere. Ma la distanza che divide la Russia dal mondo occidentale si misura anche con un evento terribile come questo. Poco dopo la sua rielezione, Vladimir Putin aveva irriso l’allarme lanciato dagli Usa, definendolo come «un ricatto» e un tentativo dell’Occidente di «intimidire e destabilizzare la nostra società». Il muro della diffidenza e dei sospetti reciproci non è mai stato così alto.
Inutile immaginare chi si celi dietro questo attentato. Se confermata, la rivendicazione dell’Isis sembra quasi il male minore. A questo siamo ridotti. Perché da due anni per la Russia esiste ormai il perfetto capro espiatorio di ogni nefandezza. Non a caso l’Ucraina è stata veloce nel dire che non c’entra nulla. Kiev ha in effetti ben poco da guadagnare da una simile strage. La simpatia e l’appoggio del mondo intero non si guadagnano certo ammazzando vittime innocenti.
Per Putin, si tratta di un duro colpo alla propria immagine. La sua recente campagna elettorale si era basata sulla sicurezza. Io sono l’unica persona che vi può proteggere: è sempre stato questo il suo principale messaggio alla popolazione. Il presidente russo edificò la propria ascesa sulle macerie dei palazzi distrutti dagli attentati alla dinamite che nel settembre del 1999 uccisero 293 persone. Era stato nominato da poco primo ministro. Quelle bombe, della cui paternità si discute ancora oggi, furono ufficialmente attribuite ai ribelli daghestani e ceceni. «Andremo ad ammazzare i terroristi anche al cesso» disse il futuro presidente. Quella frase fece impennare la popolarità di un personaggio politico all’epoca sconosciuto alla maggioranza dei russi, e formò la sua immagine di «uomo forte» alla quale fu fedele anche nei quattro drammatici giorni dell’ottobre 2002, durante il sequestro collettivo al teatro Dubrovka di Mosca. I media russi, a quel tempo ancora liberi di avere una opinione propria, chiedevano una soluzione non cruenta della vicenda. Putin non li ascoltò. Non poteva tradire l’immagine di leader spietato con i nemici che aveva offerto alla sua gente. I 41 guerriglieri del comando ceceno vennero uccisi. Morirono però anche 130 ostaggi, la maggioranza dei quali avvelenati dai gas usati dalle Forze speciali durante l’irruzione.
Purtroppo per lei, la Russia ha una recente tradizione di attentati sul proprio territorio. Anche in tempo di pace. I più recenti sono sempre stati opera di islamisti radicali. Il 29 marzo del 2010, a Mosca esplosero due bombe in altrettante stazioni della metropolitana. Morirono 39 persone. Il 21 agosto dello stesso anno, i servizi russi uccisero in Daghestan, l’organizzatore dei due attentati, Magomedali Vagabov. Il 24 gennaio 2011, all’aeroporto Domodedovo un terrorista dell’Inguscezia si fece esplodere facendo 38 vittime. L’atto venne rivendicato dalla sedicente repubblica islamica dell’Ichkeria (Cecenia e Inguscezia), in risposta alle «persecuzioni dei musulmani in tutto il mondo».
A ogni azione terroristica, è sempre seguita una reazione violenta da parte del Cremlino. Ma è come se l’eterna maledizione del Caucaso riportasse Putin alla casella di partenza della sua storia personale. Forse la guerra non avrà l’ulteriore espansione che il mondo intero teme. Ma non perderà certo di intensità, allontanando ancora di più ogni remota ipotesi di negoziato. Quando è in ambasce, il presidente russo conosce un solo modo per uscirne, e per rinsaldare la sua aura da zar invincibile.
Sangue chiama sempre sangue.