il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2024
Il crepuscolo dei quotidiani
Con un documentato articolo sul Fatto, Nicola Borzi ha confermato, dati alla mano, quel fenomeno che per la verità tutti noi sperimentiamo ogni giorno ictu oculi: la crisi delle edicole. Nell’ultimo quadriennio le edicole sono scese da 16 mila a 13.500 circa, ma il fenomeno ha radici molto più lontane, nel 2002 i punti vendita in Italia erano 43 mila, ora sono scesi a 23 mila.
Nella mia zona, piazza Repubblica e dintorni a Milano, fino a una decina d’anni fa c’erano cinque edicole. Oggi ne sono rimaste due. Una proprio accanto a casa mia è gestita da un “bangla” che per tenersi in piedi lavora dal primissimo mattino a mezzanotte, ma è ugualmente in grave difficoltà perché da lui molti giornali non si trovano o perché non glieli mandano o per qualche altro motivo. L’edicola più importante della zona sta in via Vittor Pisani, ma se la cava vendendo gadget, giocattoli, biglietti tranviari.
La crisi delle edicole è uno dei segnali, forse il più indicativo, della corrispondente crisi dei giornali. Era abitudine, un tempo, vedere gente al bar che leggeva i giornali o altri che passeggiavano con il giornale in mano. Mi capita, a volte, che qualcuno che non mi ha riconosciuto mi fermi e mi dica fra l’ammirato e il meravigliato: “Ma lei è uno che legge ancora i giornali?”. Il Corriere della Sera e Repubblica vendevano, fino a non molti anni fa, mezzo milione di copie. Oggi sono attestati intorno alle 200 mila copie o poco più, e molte di queste te le sbattono in faccia, gratuitamente, nei grandi alberghi o sui Frecciarossa, e il motivo è che per farsi pagare la pubblicità devono mantenere, sia pure in modo artificioso, un certo livello.
Come la tv finì per spazzar via, in un periodo che va da metà degli anni Sessanta ai primi Novanta, i quotidiani del pomeriggio, il Corriere Lombardo, la Notte, il Corriere d’Informazione, così l’avvento del digitale sta spazzando via i giornali. Il lettore, giovane ma non solo giovane, è abituato a un’informazione immediata e molto più stringata. Non ci sono più i grandi reportage del tempo che fu. Il Diario di Enrico Deaglio (1996-2009) ha tentato coraggiosamente di riprendere quella formula, ma alla fine ha dovuto cedere. Gli editori, tutti tesi a risparmiare, riluttano a mandare in giro inviati che molto spesso sono freelance pagati niente. Il Corriere di Cairo, tanto per fare un esempio, a un collaboratore che ha scritto magari un’intera pagina dà dai 30 ai 50 euro. Quando lavoravo all’Europeo negli anni Settanta noi giornalisti, oltre a prendere un ottimo stipendio (nel mio caso 1 milione e passa, che corrisponde a diecimila euro attuali) potevamo contare su un borderò praticamente illimitato. Ogni spesa che fosse destinata a rendere il pezzo migliore era legittima (che poi molti colleghi su quei borderò si siano comprati la seconda o la terza casa è un altro discorso, fa parte del malvezzo italiano di fare la cresta sulle note spese che vediamo oggi in piena azione non solo nei giornalisti – Minzolini docet – ma nei politici e in qualsiasi amministratore pubblico). Alberto Ongaro, che si occupava di viaggi esotici, affittò per 1 milione di allora una baleniera, un altro che doveva intervistare Farah Diba le fece arrivare un cesto di tremila rose.
Nel giornalismo di carta stampata non ci sono più i grandi personaggi, i Bocca, i Montanelli o, per tornare un poco più indietro, i Curzio Malaparte che con i suoi reportage, i suoi libri (La pelle, Kaputt, Tecnica di un colpo di Stato) o i suoi commenti (Battibecco) ha influenzato buona parte del giornalismo a lui contemporaneo o successivo (vedi Oriana Fallaci) o, per tornare ancora più indietro, Edoardo Scarfoglio.
Oggi, in linea di massima, se un giornalista è noto lo è per le sue apparizioni nei talk, che si sono moltiplicati nel tempo ma sono anch’essi in caduta libera negli ascolti. I giornalisti fra i 30 e i 40 anni hanno capito come si fa: di base certo ci dev’essere un giornale, poi si partecipa a quanti più talk possibile, infine si scrive un libro, molto probabilmente una cazzata, di cui comunque i colleghi parleranno. Che questo sia un esempio di buon giornalismo ho molti dubbi.
Gli influencer hanno preso il posto dei giornalisti, sono loro le star. Chiara Ferragni ha 15 milioni di follower, Marco Travaglio, che è forse il giornalista più noto oggi in Italia, mi pare due o tre.
I giornali sono fatti male? Sì, sono fatti male. C’è una prevalenza dei commenti, quorum ego, sulla cronaca, intendo la cronaca in presa diretta, che era abitudine, anzi obbligo, per la mia generazione e alcune successive. Desolanti sono gli spazi dedicati alla cultura, tanto che capita spesso che i direttori, non sapendo a che altro santo votarsi, ripubblichino estratti di scrittori o giornalisti del passato più o meno immediato, Buzzati, Montanelli, la stessa Fallaci.
La crisi dei giornali non investe in egual misura i libri. Il libro è un prodotto fisico, tattile, come i giornali certo, ma pensato per una più lunga durata. Puoi fare note e osservazioni anche lunghe a margine (le potresti fare anche sugli eBook, ma viene molto meno spontaneo) e comunque, in ogni caso, ci puoi arredare la tua libreria. Anche se nel disastro generale vediamo in certe biblioteche private libri che del libro hanno solo la copertina.
Poi nell’editoria libraria accade una cosa curiosa: non c’è praticamente italiano che non abbia scritto un libro. Spesso mi arrivano a casa libri di autori sconosciutissimi che sperano in una recensione. Grandi case editrici, come la Mondadori, si sono ridotte a far pagare gli aspiranti autori, cosa che facevano un tempo case editrici infime e spesso truffaldine. Se aumentano gli autori, diminuiscono però i lettori. I “lettori forti”, quelli da cento libri l’anno, sono in estinzione per ragioni d’età. Come se la cavano allora gli editori? Sperando che fra la pletora di libri che caccian fuori uno diventi un best-seller, e con questo si ripagano gli altri, o pubblicando per la scolastica o cartoni animati per bambini che vanno sempre forte.
Ma qui di giornalismo non resta davvero più nulla. Spesso vengono da me dei giovani (io ho in genere un pubblico giovane, a parte dei fanatici pleistocenici che mi seguono dai tempi dell’Europeo) che mi chiedono come si fa a entrare in giornalismo. Io li gelo subito dicendo loro che mancano del primo requisito del giornalista: il fiuto. Se lo avessero non vorrebbero entrare in un mestiere morente.