Robinson, 22 marzo 2024
Intervista con Glauco Mauri
In un vecchio attore sedimentano numerose facce, non so quante esattamente ma abbastanza da riempire un libro di ricordi. Che è quello che Glauco Mauri ha fatto con Le lacrime della Duse (il libro, edito da Falsopiano e curato da Mauro Paladini, lo presenta ad Asolo il 21 marzo). «La faccia», dice Mauri, «o è il riflesso della tua anima oppure è una superficie inespressa. La mia l’ho offerta ai personaggi che ho interpretato: i buoni, i cattivi, i meschini e i generosi, i malvagi e i delusi». C’è la faccia dostoevskiana, cupa e un po’ folle, c’è quella shakespeariana scavata dal potere e dalla vecchiaia, c’è la beffarda disegnata da Brecht; c’è quella attonita voluta da Beckett: «Ho cercato di essere all’altezza delle trasformazioni. Il potere della metamorfosi mi ha accompagnato come un’ombra che esplodeva ogni volta in frammenti e ogni frammento era un volto e ogni volto una storia, ilare, tragica, violenta, quieta, sfregiata, misteriosa, definitiva». Ecco cosa compie il teatro in una persona di quasi 94 anni che non ha mai smesso di credere nel dio della recitazione.
Quasi ottant’anni di palcoscenico. Ricorda il suo esordio?
«Sono nato a Pesaro, avevo sedici anni la prima voltache recitai. Avvenne in una chiesa sconsacrata. Un dentista che si dilettava di teatro mi propose un piccolo ruolo in una commediola. Fu un emozionante battesimo. Alla fine dello spettacolo arrivò l’applauso. Ero stato più volte al cinema, o sul loggione del teatro Rossini ad ascoltare l’opera. Ma essere dalla parte del palcoscenico e non del pubblico era elettrizzante. Non provavo nessun timore. Solo il desiderio di ripetermi. Ma sapevo che sarebbe stata dura».
Perché?
«Una famiglia povera con tre figli non consentiva una vita da artista. Chi mi avrebbe mantenuto, e per quanto tempo? La mamma era infermiera, come lo fu mio padre. Con la differenza che morì poco dopo la mia nascita, e tutto si riversò sulle spalle della mamma».
La descrive come una donna straordinaria.
«Oltre al lavoro nell’ospedale psichiatrico forniva assistenza in tutta Pesaro. A qualunque ora libera del giorno o della notte inforcava la sua bicicletta per raggiungere un paziente. Si prese cura di una donna molto anziana e sola che quando morì le volle lasciare la sua piccola casa. Fu lì, grazie a quel dono misericordioso, che abbiamo vissuto a lungo. Quando lasciai Pesaro per andare a Roma fu uno strappo ma anche un’occasione».
Andò a fare cosa?
«Vinsi una borsa di studio per l’Accademia Silvio d’Amico. Ebbi eccellenti maestri. La prima lezione fu con Sergio Tofano. Al mio corso di recitazione c’erano Franco Graziosi, Giulio Bosetti, Edmonda Aldini e Alessandro Sperlì. Al primo anno di regia si era iscritto Andrea Camilleri».
Com’era il giovane Camilleri?
«Aveva qualche anno più di noi. Ricordo una persona coltissima, fumatore incallito. Determinato a diventare scrittore. Malgrado vestisse spesso di nero, quasi in maniera luttuosa, era spiritoso e brillante. E si intuiva che c’era la stoffa di chi sa osservare il mondo per raccontarlo».
Il teatro non gli bastava.
«È uno dei rari casi in cui il tardivo successo come scrittore ha fatto ombra sul suo impegno teatrale. Sarebbe interessante capire se tra il Camilleri di prima e quello del Commissario Montalbano ci sia più continuità che rottura».
Lei che dice?
«Non saprei. Certo la sua scrittura e le sue storie hanno creato un mondo universale in un piccolo angolo della Sicilia».
A proposito di mestieri diversi. Lei è stato anche attore di cinema. Ma, pur lavorando con Bellocchio e Moretti, ha fatto pochissimi film. Perché?
«Ho lavorato anche con Dario Argento in Profondo rosso, con Liliana Cavani e Pasquale Festa Campanile. Con Bellocchio ero il protagonista di La Cina è vicina, con Moretti ho girato Ecce Bombo. Proprio Nanni è venuto qui a casa un po’ di tempo fa per propormi una parte nel suo ultimo film. Non me la sono sentita; è che il cinema, diversamente dal teatro, mi stanca. Troppe pause e poca fluidità. Ma il cinema non era la mia strada. Mi viene in mente l’incontro con Ingrid Bergman. La Bergman grande attrice di cinema, star internazionale, disse che la cosa che avrebbe voluto fare come attrice era soprattutto recitare in teatro».
Glielo disse in quale circostanza?
«Non lo disse a me, lo dichiarò in una intervista rilasciata al Corriere della Sera. Raccontò della sua passione per il teatro e del fatto che era rimasta colpita dalla recitazione di un giovane sconosciuto nei Fratelli Karamazov. Lo sconosciuto ero io che interpretavo Smerdjakov. In quei giorni Memo Benassi recitava alla Scala insieme alla Bergman. Fu lui, letto l’articolo di Orio Vergani, a dirle che mi conosceva e che se avesse voluto mi avrebbe presentato. Mi invitò alla Scala e alla fine delle prove ci incontrammo nel suo camerino».
Immagino fosse emozionato.
«Soprattutto non sapevo se sarei riuscito a controllarmi. Bussai timoroso alla porta e aprii. Lei era in piedi davanti a me. Bellissima. Teneva tra le braccia il figlio piccolo avuto da Rossellini. Disse che si era commossa vedendomi recitare. E che le sarebbe piaciuto condividere un’esperienza teatrale. Poi improvvisamente comparve Rossellini. Si avvicinò e con l’inflessione romanesca disse: “Aho, ma è vero che sei bravo come dice Ingrid? M’ha fatto na capoccia!”. Poi salutò. “Me raccomanno nun me fa ffa’ brutta figura”, aggiunse strizzando l’occhio».
Ci vuole il sacro e il profano.
«È vero, ma dove si collocano?».
Che intende?
«Voglio dire che il “sacro” per me si realizza soprattutto nel teatro; mentre il cinema sembra davvero lo spazio del profano».
Ci sono film che hanno saputo tenere insieme le due esigenze.
«Sono eccezioni. Alcuni film di Pasolini creano uno spazio dove sacro e profano si fondono nella stessa immagine».
Pasolini lo ha conosciuto?
«Andai con Franco Enriquez a trovarlo a casa. Abitava dalle parti della Magliana. Volevamo proporgli un adattamento da un suo testo. Fu gentile ma freddo».
Come infastidito?
«No, come se non appartenessimo al suo mondo».
Quale testo volevate adattare?
«Il Miles gloriosus di Plauto, di cui aveva già fatto un adattamento in romanesco con il titolo Il vantone. Accettò la nostra offerta. Pose come condizione che alla commedia lavorasse Franco Citti, il protagonista di Accattone. Enriquez manifestò dei dubbi. Citti non aveva mai lavorato in teatro. Pasolini ci propose un incontro con il suo protetto. Ci vedemmo e in quella occasione scoprii con quanta pazienza e dolcezza Pasolini spiegava a Citti cosa avrebbe dovuto fare sulla scena. Alla fine Citti rifiutò la parte per problemi personali. Ma l’incontro fu inaspettatamente bello. Davanti agli emarginati e ai vinti, e Citti in qualche modo ne era un emblema, Pasolini faceva cadere le barriere intellettuali entrando così in contatto con quel mondo arcaico e premoderno che lo affascinava».
È incredibile come a volte le persone possono essere sgradevoli e meravigliose.
«È che non siamo delle macchine. I nostri giudizi a volte contraddicono la prima impressione».
È come se avesse in mente un nome.
«Mi è capitato di ricredermi sia in positivo che in negativo. Quando Ionesco venne ad assistere alla prima di una sua opera, era Il Rinoceronte, fu felice del modo in cui l’adattammo. Come ringraziamento mi scrisse una bellissima dedica. Quando l’anno dopo gli chiesi se potevamo adattare il suo nuovo lavoro, mi fece rispondere che servivano molti soldi per i diritti. Gli scrissi che il grande Ionesco si comportava da avido come il suo Rinoceronte. Il telegramma non ebbe risposta».
Che cos’è la delusione?
«È il sentimento più prossimo alla tristezza. È quando si perde la stima dell’altro che subentra la delusione. Per contrasto penso al rapporto con Strehler. Non mi aspettavo, in un uomo considerato narcisista e autoritario, di scoprire la pazienza e la generosità».
In che modo lo ha scoperto?
«Fu Valentina Cortese a parlargli bene di me. Ci vedemmo in un albergo romano. Mi offrì una parte in Santa Giovanna dei Macelli. Conoscevo il testo di Brecht e speravo che mi proponesse il ruolo di Mauler. Sapevo di essere l’attore giusto per la parte. Invece Strehler mi assegnò un personaggio minore. Rifiutai. Tenga conto che in quel momento non lavoravo».
Dire no a Strehler non era facile. Come reagì?
«Una furia. Mi insultò, mi diede del presuntuoso. Uscii dall’albergo sconvolto per quella decisione insensata.Qualche giorno dopo ricevetti inaspettatamente una telefonata da Strehler. Urlò: lo vuoi sempre fare il personaggio di Mauler? È tuo! Era accaduto che Paolo Stoppa, a cui era stato dato il ruolo, all’ultimo momento non poté più farlo. Ecco, da quella delusione uscì qualcosa di straordinario e fu bellissimo e creativo per entrambi il nostro rapporto».
Tra le persone che più hanno influito su di lei c’è Memo Benassi.
«Memo era un grande, grandissimo attore. Lo conobbi all’Eliseo di Roma nel 1954. Interpretava Tartufo e io, giovanissimo, Orgone. Era stupefacente, provocatorio, ironico, affettuoso. È stato un maestro senza volerlo essere. Solo con l’esempio. Aveva dentro di sé l’innocenza e l’impertinenza del bambino. Fu lui, nei tre anni che ci siamo frequentati - morì nel 1957 - a parlarmi di Eleonora Duse con cui aveva recitato alla fine della carriera dell’attrice».
Lei ha intitolato la sua autobiografia “Le lacrime della Duse” in omaggio a lui. Cosa evoca quel titolo?
«Fu durante la tournée in Sudamerica sulla nave che ci avrebbe portato a Buenos Aires che Benassi una sera nella sua cabina volle recitarmi alcune parti della Duse. Si era calato nell’attrice e la faceva rivivere attraverso la voce e i gesti. Fu una serata incredibile. Diede fondo a tutto il repertorio. Concluse con La donna del mare di Ibsen. Avevo le lacrime agli occhi. Mai lo sentii così partecipe. Sembrava quasi un addio alla vita. Qualche giorno dopo, prima che sbarcassimo, mi donò la giacca di velluto che aveva indossato trent’anni prima a Pittsburgh nell’ultima recita con la Duse. Disse: custodiscila, come l’ho custodita io. Ancora oggi penso che il teatro si componga di doni improvvisi e di gesti bellissimi».
I suoi quasi 94 anni dove la collocano?
«Sono in una qualche lista di attesa, ma non so esattamente quando verrà il mio turno. La cosa bella è che continuo a progettare. Il teatro mi ha donato una vita meravigliosa e finché ci sarà la forza avrò voglia di servirlo. A settembre porterò sulle scene il De profundis di Oscar Wilde. Reciterò la lunga lettera che scrisse dal carcere all’amato compagno».
Anche quello fu un congedo.
«Molto triste, e di uno degli uomini più brillanti d’Europa. I congedi hanno sempre qualcosa di impropriamente teatrale».
Impropriamente?
«L’uscita di scena nella vita non è come quella che si ripete per tutte le repliche. Un attore impara a morire ogni sera. Finge di morire per poi rinascere. Un uomo può farlo una sola volta. Senza il pubblico. In una solitudine che, per come si è vissuti, può essere disperazione o raccoglimento».