Tuttolibri, 22 marzo 2024
Biografia di Sebastiano Timpanaro
Non vi è, in apparenza, mestiere più innocuo e innocente di quello del filologo. Eppure la filologia può essere anche «la più eversiva delle discipline», per citare il sottotitolo di un vecchio libro di Luciano Canfora (Filologia e libertà, 2008). Sforzarsi, attraverso un’analisi spassionata, di ristabilire la verità su un testo spinge, in genere, a rifiutare ogni dogmatismo. Le conseguenze possono essere anche di un certo peso. Quando, più di mezzo millennio fa, l’insigne umanista Lorenzo Valla dimostrò che la cosiddetta Donazione di Costantino era un falso, il suo accurato lavoro filologico andò a colpire uno dei puntelli ideologici del potere temporale della Chiesa di Roma. Del resto, per secoli i Papi hanno condannato l’esercizio della filologia sui testi sacri: si dovette arrivare fino al 1943 perché un’enciclica di Pio XII lo considerasse legittimo. È vero che i Papi hanno continuato a infischiarsene delle puntuali osservazioni filologiche del Valla sulla Donazione di Costantino e si sono tenuti stretti il loro potere temporale. Ed è anche vero che, nonostante le prove contrarie, qualche svitato crede tuttora che i Protocolli dei Savi di Sion, clamoroso falso antisemita, siano veri. Ma questo, anziché scoraggiarci, dovrebbe forse indurci a insistere ancora di più sulla via del metodo filologico.Uno studioso che ha dedicato tutta la vita a una filologia intesa anche come forma di impegno civile e politico è stato Sebastiano Timpanaro (1923-2000). Tanti, non solo tra gli antichisti, gli sono stati e gli sono tuttora devoti. Nei suoi studi uno sguardo estremamente rigoroso, attento alle più minute finezze dell’analisi testuale, si congiungeva al piglio militante con cui affrontava i grandi temi culturali del Novecento. Nel nome di uno storicismo integrale, Timpanaro combatteva le correnti più alla moda della cultura novecentesca. Detestava tanto lo strutturalismo di Lévi-Strauss quanto la psicanalisi freudiana, dottrine che gli parevano troppo astratte e troppo astoriche. Lo definivano “maestro senza cattedra” perché rinunciò presto all’insegnamento, a causa del terrore che lo prendeva alla sola idea di parlare in pubblico, e si rifugiò nel mestiere di correttore di bozze. La sua figura ispirò quella del protagonista del romanzo di George Steiner, Il correttore (1992). Anche se Timpanaro non gradì più di tanto l’omaggio e non si ritrovò nel ritratto dell’erudito delineato da Steiner: «Un uomo i cui scrupoli ossessivi verso le minuzie tipografiche e il ribrezzo per l’approssimazione e l’imprecisione erano di un magistero e di una pedanteria esemplari». E non sappiamo neppure se dobbiamo prendere sul serio l’aneddoto riportato da Perry Anderson, secondo il quale Timpanaro gli diceva: «Il mio rancore nei confronti di Freud deriva dall’incapacità della psicoanalisi di curarmi».L’aneddotica sulle sue nevrosi non rischia comunque di offuscare la statura di Timpanaro come filologo e studioso. L’Accademia dei Lincei ne ha celebrato il centenario della nascita questa settimana con un convegno (appena un po’ fuori tempo, essendo Timpanaro nato nel 1923). Mentre l’editore Aragno ha mandato in libreria un volume intitolato Ritratti di filologi che raccoglie, con una dotta e documentata introduzione di Raffaele Ruggiero, sei schizzi biografici apparsi in origine sulla rivista Belfagor. Timpanaro racconta il profilo intellettuale di studiosi che per lo più gli sono stati maestri o amici. C’è, per esempio, Scevola Mariotti, che molti ricorderanno almeno come coautore di un celebre dizionario di latino (il Castiglioni-Mariotti). Ma c’è soprattutto, Giorgio Pasquali, supremo filologo novecentesco. Pasquali era il modello di Timpanaro. Il quale lo ritrae come uno studioso «fradicio di storicismo» che lotta eroicamente contro i grandi mali di una cultura italiana viceversa troppo imbevuta di idealismo e malata di pose estetizzanti: Pasquali combatte «il dilettantismo letterario e l’angusto nazionalismo», rappresentato all’epoca da uno studioso estroso come Ettore Romagnoli, ma anche «il sedicente storicismo crociano che intanto colloca fuori della storia l’opera d’arte».Timpanaro non scrive con la stessa eleganza di Pasquali, che era prosatore finissimo. Ma il suo stile è chiaro e didascalico e a volte i suoi ritratti hanno un andamento quasi bozzettistico. Il profilo di Giuseppe Pacella, studioso di Leopardi, per esempio, sembra l’inizio di un racconto: «Un pomeriggio di un anno che non saprei più indicare esattamente si presentò a casa mia un signore di aspetto e pronuncia leggermente meridionali, di età che non seppi definire». In generale, la maniera di scrivere di Timpanaro è antiretorica e lontana dalle contorte fumisterie di molta prosa accademica. Questa lezione di stile, fra le altre che ci ha lasciato, non è certo la meno importante.