Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 22 Venerdì calendario

La vita senza soste di Emanuele Macaluso

ROMA «C’è una nostra responsabilità per il fatto che la sinistra in Italia si sia rattrappita nel modo che vediamo? C’è una nostra responsabilità per l’involuzione della democrazia e del panorama politico italiano? Per il suo degrado? A tali domande delle risposte sono doverose, senza di esse non è in alcun modo possibile una seria, solida ripresa». È in questi interrogativi che c’è il testamento politico di Emanuele Macaluso, lui che ieri avrebbe compiuto cento anni, e che poco prima di morire, il 19 gennaio del 2021, aveva affidato le sue riflessioni al libro Comunisti a modo nostro. Storia di un partito lungo un secolo, scritto con l’amico e il compagno di una vita, Claudio Petruccioli.
Macaluso era nato a Caltanissetta, figlio di un operaio fuochista, madre casalinga, nonni minatori. Gli anni dello sfruttamento più duro, dell’ingiustizia sociale «di tipo medievale», racconterà, con il grisù che esplodeva e le donne che cercavano i mariti e i figli tra i morti. Lui che a 16 anni vomita sangue, colpito da tubercolosi, e a trovarlo ci va solo Gino Giandone, comunista. Si iscrive al Pci clandestino nel 1941, ha appena vent’anni quando accompagna Girolamo Li Causi a un comizio a Villalba. Il boss mafioso Calogero Vizzini li fa accogliere con bombe e spari. Li Causi,ferito, zoppicherà per tutta la vita. Pochi anni dopo, nel 1947, ci sarebbe stata la strage di Portella della Ginestra. Arrestato per adulterio, poco più che ragazzo, insieme alla sua compagna Lina. Molti i sindacalisti assassinati in quegli anni dai sicari di Cosa nostra. Segretario della Camera del lavoro a Caltanissetta, poi leader della Cgil in Sicilia e segretario regionale del Pci, l’amicizia con Giuseppe Di Vittorio e con Leonardo Sciascia. Deputato all’Ars, sette legislature da parlamentare, con Palmiro Togliatti dal 1944, direttore dell’Unità, nel Pci fino allo scioglimento, che condivise, nel 1991 a Rimini. Solo pillole di una vita senza soste, seguendo la regola un po’ guascona: «Mai cenare dove si dorme, mai prendere il caffè dove si cena».
«Erano loro i ragazzi di Palmiro Togliatti, quelli del partito nuovo, rifondato dopo la Liberazione, la generazione dei ventenni della metà degli anni Quaranta – racconta Petruccioli —. Unico testimone è rimasto Aldo Tortorella. C’erano Enrico Berlinguer, Giorgio Napolitano, Alfredo Reichlin, Armando Cossutta, Gerardo Chiaromonte, Ugo Pecchioli. Il confronto con Emanuele, per me che a metà degli anni sessanta guidavo la federazione giovanile, è stato intenso e affettuoso. Lui orgogliosamente del Pci, senza vezzi eretici ma unico nella sua capacità di non ignorare i problemi, di cogliere la lunghezza d’onda di un dibattito che maturava fuori dal partito».
L’autore
«Senza vezzi eretici,
era unico nella sua capacità di non ignorare i problemi»
Dote rara, in un mondo in cui si demandavano le questioni più spinose alle «sedi opportune». Sono due le ragioni che l’hanno formato, l’impasto dal quale è cresciuto. «La prima è la sua origine di sindacalista – ricorda Petruccioli —. Il sindacalismo unitario, non solo ovviamente Di Vittorio, ma anche Giulio Pastore. E poi, un’attenzione non comune alla libertà individuale delle persone, che lo ha portato ad avere tanti rapporti e amicizie con i Radicali, Massimo Bordin tra gli altri. Una forte impronta garantista, per lui che aveva chiaro come la mafia non fosse solo oppressione, dominio e criminalità, ma anche cultura della soggezione, soprattutto nei confronti delle donne. E quindi la dignità delle persone andava difesa non solo sul posto di lavoro, ma in tutti gli aspetti della vita».
In mezzo la storia dell’Italia e del Pci. L’invasione dell’Ungheria, il compromesso storico, la rottura con i socialisti, la vocazione riformista ed europeista, la caduta del Muro «e una riflessione – argomenta Petruccioli – che si è interrotta troppo presto, con la morte prematura di Berlinguer, che ha avuto l’effetto di santificare e cristallizzare il passato». E poi quella domanda, che Macaluso ripropone alla fine del libro: «Tanti mi chiedono: non c’è una vostra responsabilità nel degrado politico di oggi?».