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 2024  marzo 22 Venerdì calendario

Intervista a Pete Doherty


«Cosa dire dei ricordi?» la voce di Pete Doherty sussurra all’inizio del documentario Peter Doherty: Stranger In My Own Skin, diretto dalla regista (e moglie) Katia de Vidas. Non solo un viaggio nella cronologia artistica di Doherty, dall’apice della fama dei The Libertines – quando hanno vinto gli NME Awards come Best British Band- ma un flusso di coscienza, faccia a faccia con la macchina da presa, tra stanze vuote, dipendenze e distese sconfinate di un villaggio francese dove Doherty vive, attraversate solo dalla sua voce. «Come parlare dei ricordi?», Doherty ripete alla Fondazione Prada dove è ospite per introdurre il documentario che ripercorre il turbolento passato e attimi introspettivi. Con un album dei The Libertines in uscita prossimamente, All Quiet On The Eastern Esplanade, e un tour che toccherà anche l’Italia a luglio con due date (a Roma e a Milano), Doherty ha nuovo materiale creativo. Tutto è iniziato a settembre del 2022 a Port Antonio in Giamaica dove Doherty e Carl Barât si riuniscono e lontani da ogni distrazione, l’intesa tra i due rinasce.
Perché il suo ritratto versione documentario si intitola “Stranger in My Own Skin”?
«Alla base c’è l’idea è che forse non senti che la pelle è davvero tua. È così che mi sento a volte, ho anche scritto un brano intitolato Stranger in My Own Skin. Credo che questa sensazione sia insita nel documentario e che Katia (De Vidas) catturi i miei momenti di estrema ansia. A quei momenti si riferisce il titolo. A volte mi sento come se fossi un alieno nella mia stessa pelle».
C’è un’idea di frammentazione che emerge nelle interviste, monologhi raccolti nell’arco di un decennio…
«Nel documentario ci sono sempre computer portatili rotti, cose che non hanno mai funzionato. La mia idea di fare un documentario era disorganica ma quando ho incontrato Katia de Vidas è tutto cambiato. Era una persona di cui mi fidavo e con cui mi sentivo più a mio agio di chiunque altro avessi mai incontrato. E così più tempo passavamo insieme, più tempo lei passava a filmarmi. Alla fine sono diventati anni».
La scrittrice Jude Ellison Sady Doyle aveva chiamato “trainwreck” quel processo morboso che il successo porta con sé. In altre parole, tutti, soprattutto chi ti ha messo su un palco o su un piedistallo vuole che tu cada…
«La gente vuole che tu fallisca sempre, anche prima di diventare famoso. Non so quando ho iniziato ad amare la musica, quello che so è che quando avevo 16 anni e mi piaceva Jarvis Cocker andavo a scuola vestito come lui, con i pantaloni a zampa. Era come attraversare le Badlands. Ero bersaglio non solo di critiche verbali ma anche di minacce fisiche. Così è diventata una missione resistere. Sono stato preparato fin da piccolo agli attacchi. E in un certo senso ti rende più forte, se vuoi andare avanti».
Crede che la sua carriera abbia subito l’ombra ingombrante di una rappresentazione parziale legata alle dipendenze?
«I tabloid! Non si possono contrastare, persino la Famiglia Reale è sotto attacco. Ho provato a reagire in mille modi diversi ma ogni volta ho peggiorato le cose. Sono davvero senza volto. Hanno un’infrastruttura enorme o perlomeno la avevano prima dei social all’inizio degli anni Duemila. Una star sbronza per strada è come un agnello al macello. Ma si sa a cosa si va incontro. Chi ha un certo tipo di carattere, forse un po’ esibizionista, gode dell’aspetto performativo di queste cose. E c’è a chi piace solo vedere le proprie foto ma odia il resto, come è successo a me».
Cos’è stata la creatività per lei? Cosa, invece, è andato dissolvendosi?
«Come un animale selvatico nella foresta credo di aver trascorso molto tempo da solo, soprattutto ai tempi delle dipendenze. Un sacco di tempo in solitudine, in una stanza d’albergo o in un appartamento, con una chitarra in mano. Mi chiedo spesso quali siano le canzoni che mi siano sfuggite, quelle che non ho mai registrato. Non mi interessava registrare».
E ora che con Carl Barât avete trovato nuove sinergie creative per un nuovo album dei Libertines, riavvolge il nastro? Si ricorda, prima delle tempeste, dove vi siete conosciuti?
«Era un amico di mia sorella ai tempi della scuola, lo incontrai sulle rive del Tamigi, al Brunell College. Io avevo 16 o 17 anni lui 18 o 19. Speravo che questo ragazzo avrebbe suonato la chitarra nella mia band. E così è stato».
A quasi dieci anni da “Anthems for Doomed Youth” del 2015 come avete lavorato al nuovo materiale?
«Abbiamo registrato senza distrazioni lo scorso anno. Penso di essere in una posizione di privilegio come artista. I nuovi brani, l’album, è tutto ciò che posso chiedere, davvero. Pubblicherò anche un album da solista molto presto. È stato un periodo molto creativo».
Come descriverebbe la scena londinese di inizio Duemila?
«Nella mia testa c’è solo un caleidoscopio di energie. All’inizio credevamo di essere dalla parte giusta, forse non da un punto di vista personale ma come gruppo di amici. Aveva a che vedere con alcuni quartieri di Londra, con quella sensazione giovanile di essere dalla parte giusta e con Carl (Barât)».—