Avvenire, 22 marzo 2024
Stelvio Massi, il “papà” del poliziesco all’italiana
C’era una volta il poliziottesco, genere cinematografico che si sviluppò in Italia tra la fine degli anni Sessanta e la metà del successivo decennio, per non rinascere più. Le storie e i personaggi erano quasi sempre gli stessi, con varianti sui casi di cronaca raccontati e i luoghi dove si svolgevano: un poliziotto con la rabbia negli occhi agiva al limite della legge e spesso fuori dalle regole per assicurare alla giustizia, a qualunque prezzo, i criminali che insanguinavano le città: Milano, Torino, Roma, Napoli erano violente e la polizia brancolava nel buio, tranne, ovviamente, il commissario di ferro, un tipo “scomodo” che risolveva tutto a modo suo.
Lo Stivale era segnato dalle tragedie degli anni di piombo: terroristi, mafiosi, delinquenti comuni seminavano il panico, tracciando ovunque una lunga scia di sangue, con attentati, sequestri di persona, rapine, omicidi e la gente chiedeva alle disorientate istituzioni di mettere le cose a posto e poter vivere in tranquillità. Il cinema aiutava a sognare quello che nella realtà, allora, agli italiani perbene sembrava impossibile, con la stessa democrazia che pareva crollare. E così, dopo il successo planetario del “Western spaghetti”, che aveva esaurito ormai tutta la sua vena creativa, ecco affermarsi il “poliziesco Made in Italy”, capace di far prosperare ancora l’industria di Cinecittà e intrattenere il pubblico nei momenti più terribili e bui della storia repubblicana. Poliziotti senza paura prendono il posto degli altrettanto indomiti sceriffi mentre i banditi si mettono un abito moderno e imbracciano il mitra al posto della colt. Si trattava di film d’evasione, da guardare come fossero fumetti in movimento (le situazioni erano spesso inverosimili), opere che certa critica, in quanto ai contenuti e alla fattura, contrappose giustamente a quelli cosiddetti “d’autore”. Sarà Quentin Tarantino, vent’anni dopo, a sdoganare le imprese dei “poliziotti bastardi” interpretati da Maurizio Merli, Luc Merenda, Renzo Palmer e Antonio Sabàto con le sue Iene e Pulp Fiction osannati a Hollywood e nei cinema di tutto il mondo. E adesso il poliziottesco è diventato materia che si studia all’università, come propone nei suoi corsi il docente dell’ateneo di Macerata e critico cinematografico Anton Giulio Mancino.
Comunque, di pellicole inguardabili allora ce n’erano davvero un bel po’. Un film come Squadra Volante, però, uscito proprio 50 anni fa, nel 1974, dimostra che anche in quell’ambito del cinema popolare d’azione, oltre a indiscussi capolavori come Banditi a Milano di Carlo Lizzani (che risale a sei anni prima) la qualità era possibile, almeno dal punto di vista della forma, nonostante la fretta imposta dai produttori che avevano fiutato l’affare e i copioni che venivano scritti senza badare troppo ai particolari.
Squadra volante rappresenta dunque, e in modo evidente, la genesi del nuovo filone e mostra la sottile linea di demarcazione con l’ormai esausto western di casa nostra: la sceneggiatura è di Dardano Sacchetti, Tomas Milian (prima che Corbucci gli ritagliasse addosso il personaggio del “Monnezza”) interpreta uno “sbirro” disperato e solitario, cupo e dal grilletto facile, un segugio sulle tracce del gangster (Gastone Moschin) che gli ha ammazzato la moglie. Il commissario Ravelli (questo il nome del personaggio), indossa un basco alla Prevért anziché il cappello da cowboy e con le labbra smozzica un “toscanello”, proprio come faceva Clint Eastwood nella “Trilogia del dollaro” di Sergio Leone. La vicenda, piena di spettacolari inseguimenti (tra auto e non più cavalli e diligenze...), sparatorie, scazzottate e pupe di periferia finisce con Milian-Ravelli che prima di uccidere “il cattivo” in un duello con la rivoltella d’ordinanza getta il tesserino della polizia nelle acque del Ticino (siamo in Lombardia invece che in Arizona) proprio come faceva lo sceriffo strappandosi la stelletta dal petto dopo aver compiuto “in nome della legge” una carneficina nel saloon. Un film, nient’altro che un film d’azione, si dirà. Ma una genialata. E fatta bene. Dietro alla cinepresa, come si capisce subito dai ritmi perfetti delle adrenaliniche scene, dalle ambientazioni, dai primi piani e dalle finezze usate nelle inquadrature, c’era un maestro, uno dei padri fondatori del genere poliziottesco, un vero professionista della Settima arte targata Italia: si chiamava Stelvio Massi, regista e sceneggiatore, già operatore alla macchina con Cottafavi, Bragaglia, Steno ( Totò Diabolicus) e Sergio Corbucci (sei film nella sua tropue, tra cui I due marescialli ) e più volte direttore della fotografia a fianco di Ettore Maria Fizzarotti nei “musicarelli” con Gianni Morandi e Nino Taranto e di Pietro Germi in Sedotta e abbandonata (seconda unità di riprese). Di Stelvio Massi, nato a Civitanova Marche, in provincia di Macerata, nel 1929, il 26 marzo prossimo ricorre il ventesimo dalla scomparsa. A lui, artista-artigiano, spesso dimenticato, il cinema italiano deve molto. «Amava visceralmente il proprio mestiere e aveva un rispetto profondo per tutti quelli che lo facevano, da attori, agli operatori, fino ai trovarobe e agli attrezzisti, come fui lui stesso all’inizio della carriera, quando da giovanissimo per il cinema lasciò gli studi in architettura a Roma, dove si era trasferito dalla provincia marchigiana» racconta il figlio Danilo, anche lui regista, soggettista e sceneggiatore (da ricordare il suo delizioso Ciao cialtroni!, con Francisco Rabal e Mattia Sbragia, presentato con successo agli Incontri cinematografici di Sorrento nel 1979), che ha lavorato in quasi tutti i 30 film diretti dal padre. Ha fatto anche l’attore, Danilo. Cominciò a soli 8 anni quando Fizzarotti lo chiamò per interpretare la parte del fratello di Gianni Morandi in diversi film che raccontavano le storie delle canzoni di maggiore successo del cantante bolognese negli anni Sessanta. «Così potevo stare vicino a papà, che vedevo poco perché stava sempre a lavorare». Oggi Danilo Massi è anche un valente fotografo. Perché buon sangue non mente. «Mio padre aveva un rapporto di “monogamia” con la macchina da presa» ricorda. «In quel piccolo rettangolo del mirino, mi diceva, ogni volta si compie un miracolo e la fantasia diventa realtà». E spesso, per guardare attraverso quel “confine dell’immaginario” e raccontare visivamente Stelvio ha rischiato anche la vita, sporgendosi dal finestrino di un’auto in corsa o su un aereo in picchiata con la camera in mano. Un giorno, racconta Fabio Testi, mentre giravano Speed driver, un road movie ambien-tato nel mondo della Formula 1, sul set mancava il dolly (un carrello per le riprese dall’alto) e lui se lo inventò facendosi legare conuna corda a una scala con la camera in mano e ordinò a un tecnico di alzarla in posizione verticale e di spostarsi seguendo la scena che gli attori stavano svolgendo sotto la sua direzione. Aveva il polso fermo e l’occhio penetrante: il risultato fu perfetto, senza sbavature.
Ma a Stelvio Massi si deve anche una grande innovazione: introdusse per la prima volta le tecniche di ripresa cinematografica in uno sceneggiato televisivo. «Per realizzare le riprese esterne della mini serie Jekyll di Albertazzi, che andò in onda sul canale nazionale della Rai nel 1969, e della quale lui fu direttore della fotografia – ricorda Danilo – mio padre usò la più agile macchina a mano che consentiva di dare maggiore movimento alle scene mentre prima venivano utilizzate le telecamere fisse o attrezzature pesanti». Da Albertazzi, Stelvio imparò anche a fare il regista e a trattare il cast nel modo migliore. «Con gli attori era aperto, lasciava che liberassero al massimo la loro creatività per poi prendere quello che riteneva più “credibile” – dice Danilo – però se qualcuno sgarrava sapeva farsi rispettare, eccome. Per La legge violenta della squadra anticrimine,
girato nel 1976, Massi e la produzione scelsero un cast stellare: Lee j. Cobb, John Saxon, Renzo Palmer, Lino Capolicchio, Antonella Lualdi. «Era un film dalla sceneggiatura robugli sta, ispirato a un fatto di cronaca, ma gli attori ci misero del loro – ricorda il figlio del regista – così papà in quella occasione dovette fare un po’ come Michelangelo di fronte al blocco di marmo: lavorare per sottrazione...».
Tra i poliziotteschi inventati dal regista di Civitanova non bisogna dimenticare quelli con Maurizio Merli, l’attore “dagli occhi di ghiaccio”, il giustiziere contrapposto a Massimo Mirani nella parte del “ragazzo di borgata ribelle e violento”, faccia tirata, pistola tremante e sguardo allucinato (un giorno una pattuglia della polizia lo fermò a Roma durante le riprese di un film di Massi scambiandolo per un criminale vero). E poi, c’è il “trittico” di Mark il poliziotto, con Franco Gasparri, divo dei fotoromanzi anni ‘70 che grazie al regista marchigiano diventò ancora più popolare nei panni di questo Serpico di casa nostra che insegue correndo a piedi l’ambulanza nella quale si nasconde il criminale che deve acciuffare (e, nella finzione, ci riesce). «Ma papà Stelvio, anni prima, ebbe un ruolo decisivo anche nella genesi di Per un pugno di dollari - conclude Danilo -perché andò a vedere al cinema Archimede La sfida del samurai (Yojimbo) di Akira Kurosawa con il collega Enzo Barboni e quando incontrò Sergio Leone disperato e in crisi creativa gli suggerì: “Metti al posto delle armi bianche una pistola e un fucile e vedrai che funziona». Così fu, e cambiò la storia del cinema.