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 2024  marzo 22 Venerdì calendario

Guerre e conflitti per conquistare l’acqua Condividerla è l’unico modo per salvarla


L’arte di condividerla suggella prosperità e pace. Ma su scala planetaria, crescono le tentazioni di trasformare l’acqua in pretesto di tensioni e conflitti, un po’ come nella fiaba del lupo e dell’agnello lungo il ruscello. Anche perché 1,4 miliardi di persone sono state colpite da siccità fra il 2002 e il 2021. Un’arsura, fra l’altro, all’origine del 10% dei nuovi migranti del pianeta.
In occasione della Giornata mondiale dell’Acqua, celebrata oggi, l’Onu ha voluto ricordare, con un rapporto molto ricco e dettagliato pubblicato dall’Unesco, i benefici legati a una gestione collaborativa e sostenibile dell’acqua, come «la sicurezza sanitaria, alimentare ed energetica, la protezione dai disastri naturali, l’istruzione, il miglioramento degli standard di vita e dell’occupazione, lo sviluppo economico e diversi servizi ecosistemici». Per il momento, la comunità internazionale resta lontana dall’obiettivo 6 dell’Agenda 2030, ovvero garantire a tutti l’accesso a un’acqua senza rischi: nel 2022, erano in 2,2 miliardi a non trovare ogni giorno acqua sicura da bere e per lavarsi. I servizi igienico-sanitari, poi, restavano fuori portata per 3,5 miliardi di persone. Un problema non solo nelle aree rurali, dato che «le città e i municipi non sono stati in grado di tenere il passo con l’accelerazione della crescita della popolazione urbana».
Eppure, ricorda il rapporto, tutta la storia dell’umanità dimostra che l’acqua è un ingrediente chiave d’aggregazione e costruzione condivisa di civiltà. Per imboccare il bivio giusto, occorrerebbe aggiornare e promuovere una “saggezza” che ha permeato la convivenza in innumerevoli contrade, anche con clima arido.
Un caso esemplare citato nel rapporto proviene dallo Yemen martoriato, Paese fra i più assetati e poveri, secondo l’indice Onu di sviluppo umano. Dall’acqua della diga di Malaka, usata soprattutto per i campi e il bestiame, dipendono le sorti di 3 villaggi contigui. A lungo, il bacino è finito al centro di contese laceranti, culminate in un decreto tribale per vietare l’accesso alla preziosissima risorsa. Ciò ha spinto un gruppo di donne dei diversi villaggi a fondare un’associazione per la gestione dell’acqua. Una mossa che ha presto permesso di superare le controversie, propiziando veri e propri negoziati di pace. Con il sostegno della Fao, è stato poi creato un sistema di condotte che funzionano per semplice gravità, alimentando così diversi pozzi sparsi nella zona. Oggi, non è più necessario recarsi fino alla diga. Inoltre, il nuovo sistema permette di ridurre gli sprechi dovuti all’evaporazione. Insomma, un accordo al femminile nato dal basso fra comunità decise, in nome dell’acqua, a non gettare il proprio futuro fra i mulinelli di polvere.
Da un’altra “periferia”, grazie a un approccio collaborativo, è decollata un’idea che potrebbe cambiare il destino di vaste aree. Teatro di questo progetto è lo Stato indiano del Gujarat, tristemente noto per via del terremoto devastante del 2001 che uccise circa 20mila persone, distruggendo più di 400mila alloggi. Ma da una decina d’anni, una parte dei canali d’acqua locali sono stati ricoperti con pannelli solari. Un’iniziativa che ha innescato, al di là di molte previsioni, un circolo virtuoso, grazie a una serie d’effetti concomitanti: minore evaporazione dell’acqua, maggiore efficienza dei pannelli, riduzione dello sviluppo d’alghe nocive, zero terreno “sacrificato” per produrre energia. Ogni chilometro di canale coperto ha un potenziale di almeno 2 Megawatt: un modello esportabile forse nel mondo intero. Fra le soluzioni citate nel rapporto come esemplari, figura pure il sistema di sussidi mirati per la fornitura d’acqua adottato in Cile. All’inizio degli anni Novanta, il governo decise di andare incontro ai bisogni di circa il 20% delle famiglie più povere, introducendo un sussidio destinato a coprire fra il 25% e l’85% della bolletta d’acqua. Nel Paese reduce dalla dittatura, questa misura ha contribuito non poco a restaurare un clima di fiducia verso le istituzioni, comprese quelle locali municipali, poste al centro del meccanismo. Da problema sociale scottante, l’acqua è divenuta un vettore primario di ripartenza collettiva. Rispetto ad altri continenti, l’Europa si distingue per aver moltiplicato i partenariati attorno ai bacini idrici condivisi fra più Stati. Ma in proposito, l’esempio più significativo destinato a “far scuola” proviene dalle lande martoriate dell’ex Jugoslavia, dove lungo più di 900 km scorre il fiume Sava, principale affluente di destra del Danubio. Pur reduci dall’esperienza terrificante della guerra, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia e Montenegro hanno deciso d’investire in modo collaborativo nella gestione sostenibile del fiume. Proprio attorno a un corso d’acqua, simbolicamente, è stato firmato questo primo accordo regionale dopo la fine della guerra. L’intero bacino è così diventato un volano di rinascita socio-economica.
Tanto più nell’odierno contesto globale periglioso segnato dalla crisi climatica, investire sulla pace dell’acqua, suggerisce il rapporto, è al contempo il modo più antico e utile per garantire a vaste regioni un avvenire di prosperità. Di fatto, ricorda l’Onu, «fiumi, laghi e acquiferi [bacini sotterranei, ndr] transfrontalieri rappresentano il 60% dei flussi di acque dolci a livello mondiale. Risorse da cui dipende più del 40% dell’umanità. Eppure, nell’Africa che aspira a “decollare” lungo questo XXI secolo, soltanto 7 bacini idrici sotterranei transnazionali su 106 sono gestiti tramite un accordo formalizzato di cooperazione. Si tratta di uno spreco immane, se si pensa che i partenariati servono pure ad assumere il carico delle ricerche indispensabili di acqua proprio nel sottosuolo: un “eldorado” tanto vitale quanto finora colpevolmente trascurato da tanti governi. Se la pace dell’acqua può riscattare anche gli ex nemici acerrimi, l’egoismo persistente in campo idrico rischia invece di divenire la cronaca di una morte annunciata.