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 2024  marzo 22 Venerdì calendario

Biografia di Giovanna Melandri

A confermarci che la Destra esiste, eccome se esiste, mentre la Sinistra ce la siamo persa per strada, ecco il bagliore imprenditorial-mondano di Giovanna Melandri, un tempo nomenklatura chic dell’armata Pds-Ds-Pd, che si è appena accomodata nella sala d’attesa del prossimo consiglio di amministrazione dell’impero di Francois-Henri Pinault, il re del lusso, un bretone francese che vale 21 miliardi di dollari e che per farne altrettanti con i suoi marchi – Gucci, Bottega Veneta, Balenciaga, Saint-Laurent, eccetera – vende pantofole con batuffoli di visone e sassi di fiume, a mille euro al paio a tutti i riccastri del pianeta, chi se ne frega della fame nel mondo.
Ma se il bagliore in un istante dilegua – chi se ne frega anche dei riccastri, dopo tutto – l’avventura di Giovanna (detta “la Svampita”, detta “la Melandrina”) andrebbe studiata insieme con quella di un certo Pd di comando e controllo che alla perenne sfilata della vita, indossa il potere con la leggerezza dei predestinati. Sempre adeguandosi alla stagione in corso. Con la pretesa di un diritto equivalente a un vitalizio.
Quello di Giovanna, imparentata Minoli, viene da lontano, addirittura da New York, dove nacque nella bambagia di Rai Corporation, anno 1962, il babbo dirigente degli studi tv, anni di abbondanti budget con bella vita al seguito. Poi Roma a tre anni, quartiere Balduina. Con tate e scuole d’alta classe, come il prezioso liceo bilingue delle suore Mantellate Serve di Maria che all’esatto contrario la forgiò: “Ero allergica al contesto”. Ne uscì laica, combattiva e specialmente femminista. Poi l’università, facoltà di Economia, dove anche la tesi di laurea con lode sul turbocapitalismo di Ronald Reagan, la spinse in direzione ostinata e contraria. Al “vento gelido della Reaganomics” preferì i tepori di Legambiente – “l’economia deve essere sostenibile, oppure non è” – spingendola nel neonato Pds, dove a 29 anni si iscrisse direttamente alla sua direzione con il viatico di Walter Veltroni, suo mentore e amico d’infanzia. Sensibile anche lui alla nobile anagrafe kennediana, che sempre generò ammirazione tra i coetanei, oltre a una costante pioggerella di invidie e sarcasmi, specie nei futuri resoconti politici, quando divenne la ministra della Cultura nel primo governo D’Alema, quello della coltellata a Prodi e dei bombardamenti su Belgrado, che lei ingentilì portandosi al lavoro la figlia neonata: “Fa bene: è giovane, è mamma. Ma soprattutto è nata a New York!”.
Stessa musica quando salì in cima al ministero dello Sport, secondo governo Prodi, anno 2006, (“Non sa niente di calcio, di ciclismo, di pallacanestro. Niente!”) prima nerissimo per via dello scandalo Calciopoli, e poi fortunatissimo per il quarto titolo mondiale della Nazionale azzurra, quella allenata da Marcello Lippi e incoronata dalla testata del francese Zidane, il soccombente. Tripudio di dirette tv con Cannavaro e Gattuso e Buffon a innalzare la Coppa e pure la Melandri, farfalla bionda in volo tra tanti muscoli accaldati, sempre al centro dei festeggiamenti, occhioni sbarrati durante i cori da spogliatoio: “Faccela sogna’, faccela vede’!” che la ministra smontò con un sorriso da antropologa tra gli scimpanzé: “Che avete capito? Si riferivano alla Coppa non a me”. E tutti a dire, va bene, come no.
Tantissimi gli ostili nei mondi di sua pertinenza. “La Melandri ha distrutto prima il cinema, poi il calcio”, disse l’Aurelio De Laurentiis, che ha la gentilezza dei suoi cinepanettoni con il rutto. Altrettanto ha fatto la Destra lungo le sue 5 legislature in Parlamento – dal 1994 al 2012 – cavalcando gli infortuni mondani che qualche volta le caddero come vasi di gerani tra i piedi. Un clandestino bacio con Nicola Piovani, il musicista, paparazzato sul Lungotevere, come in una lenta canzone di Claudio Baglioni. Un ballo scatenato al Billionaire di Malindi, regno cafonal di Briatore, prima fortissimamente negato (“figuriamoci se io, di sinistra, nata a New York…”), poi ammesso per colpa di un video malandrino, suscitando risate vanziniane e l’eterno rancore di Briatore (“è lei la cafona che beve il mio champagne e poi nega”) che potrebbe anche configurarsi come una medaglia. Tipo quella della Legion d’onore che diceva di avere restituito alla Francia, causa la medesima onorificenza attribuita al presidente egiziano Al-Sisi, dopo il sangue di Regeni e che invece ancora compare nel suo curriculum.
Né si quietò l’ostilità al suo incedere sempre per maschilismo mai sopito. Specie quando il ministro della Cultura Ornaghi la fece planare nel 2012 sul cemento armato del Maxxi, il museo fortemente voluto a Roma proprio da Melandri ministro. Assecondando i capricci di Zaha Adid, l’archistar che per la modica cifra di 150 milioni di euro, disegnò pareti ricurve, insofferenti agli eventuali quadri da appendere.
Giovanna accettò la missione come andasse al fronte: “Vado gratuitamente a rilanciare una istituzione pubblica”. Salvo ripensarci l’anno dopo: “La legge Tremonti è sbagliatissima perché la cultura ha bisogno di grandi manager. E i grandi manager vanno pagati” disse di sé e del suo imminente stipendio, parlandone al plurale.
Il più cattivo a giudicarne la nomina fu Paolo Flores d’Arcais: “La nomina è un’autentica volgarità: anche nella beneficenza bisogna avere stile”.
Lei ignorò i sarcasmi. Badò al sodo dei denari, disse: “Abbiamo 10 milioni di budget l’anno. Ce ne vogliono 6 solo per accendere la luce e riscaldare”. Trovò quel che serviva dai grandi sponsor con cui aveva dimestichezza, dall’Eni a Bulgari. Condusse per una dozzina d’anni la nave del Maxxi senza fare né l’ottimo, né il pessimo. Inaugurò lezioni mattiniere di Yoga informandoci che si trattava “di una antichissima arte orientale”. E quando dichiarò che al museo voleva affiancare “un Hub per start up per uno smart museum”, dimostrò che in quanto a eloquio, Elly Schlein non s’è ancora inventata niente.
Ora riprende il volo. Scegliendo direttamente la business class del super lusso, quella zona di interesse che si tiene al riparo dai muri straccioni del Terzo mondo. E lo fa, detestando la ditta popolana di Bersani, la Merchant bank di D’Alema (“un uomo che vive di horror vacui”) sulla scia del suo ultimo mentore, il senatore saudita Matteo Renzi. “Oggi il Pd è un partito che guardo da lontano”, ammette a ciglio asciutto. Chi l’avrebbe detto?