la Repubblica, 20 marzo 2024
Alle origini del femminismo
Tra il 1895 e il 1928, tra l’Italia umbertina e la Parigi dei ruggenti anni Venti, un gruppo di donne straordinarie traccia la strada per quelle che verranno. Alcune sono celebri e lo resteranno – Eleonora Duse, Isadora Duncan, Sarah Bernhardt, Virginia Woolf, Eileen Gray, Colette, Matilde Serao, Sibilla Aleramo, Gertrude Stein, Anna Kuliscioff – altre svaniranno dalla storia della letteratura e delle arti, dimenticate per sempre. Tutte ruotano intorno alla misteriosa Lina Poletti, cuore del libro Le figlie di Saffo (Garzanti) in cui la studiosa americana Selby Wynn Schwartz mette a fuoco la stagione fondativa del femminismo europeo, riconsegnandoci, di tali magnifiche cultrici della classicità e antesignane del modernismo, le voci giunte a noi spesso frammentarie e quasi sempre marginalizzate da altrettanti uomini “illustri”.
L’intuizione dell’autrice è trasformare il “fragile” frammento – eredità involontaria di Saffo – in una cifra stilistica che, alla fine, si compie in un puzzle: là dove c’erano caos, silenzio, omissioni, emergono – ricostruite tra fiction e realtà – le vite inquiete, complicate, splendenti e soprattutto intrecciate tra loro di queste amiche e amanti, colte, ricche, privilegiate e, per tutte queste ragioni, determinate a conquistarsi la libertà. Ma la forza altrettanto inedita del romanzo è di disegnare una stagione resa singolarissima sotto il profilo letterario, ma anche architettonico, artistico, teatrale proprio dalle donne. Il volume è stato definito dal Booker Prize «un mosaico poetico di frammenti di storia letteraria che insieme prendono forma come un racconto intergenerazionale della famiglia lesbica. Un’ascendenza recuperata in modo erudito e giocoso».
Raggiungiamo la giovane scrittrice a Parigi attraverso Zoom. Attivista femminista anche nelle fila di Non una di meno, un dottorato di letteratura comparata a Berkeley, dopo aver insegnato un paio di anni a Stanford, California, ora è in giro per l’Europa a promuovere questo eccezionale esordio narrativo.
Lei prende in considerazione 33 anni molto precisi. Dal 1895, anno di nascita di Lina Poletti, al 1928. Ma “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf è del 1929. Perché escluderlo?
«Mi sono fermata al 1928 perché Orlando è di quell’anno, e volevo che la mia storia terminasse esattamente quando “nasceva” quel romanzo della Woolf. In più nel 1928 si consuma uno scandalo intorno a due volumi, Il pozzo della solitudine di Radclyffe Hall e, appunto, Orlando di Virginia Woolf, che rappresentano due modi diversi, opposti, di considerare la donna queer. Trovavo interessante lasciare aperto quel terreno di confronto sul femminile. Aggiungo anche che nel 1928 Virginia Woolf inizia le lezioni al college che la porteranno a scrivere Una stanza tutta per sé».
Lina Cordula Poletti
Lina Cordula Poletti
Lina Cordula Poletti, al centro della sua opera, è una intellettuale pressoché sconosciuta. La sua scarsa biografia la fa nascere a Ravenna, appassionata studiosa di Dante, anticonformista. Sarà l’amante-musa di Sibilla Aleramo prima e di Eleonora Duse dopo. Perché ha scelto lei?
«Durante il mio dottorato in letteratura comparata a Berkeley ho fatto un corso sulle scrittrici italiane del Novecento, Sibilla Aleramo, Renata Viganò e, per puro caso, mi sono imbattuta nel nome di Lina Poletti che, dalle note a lei dedicate da Alessandra Cenni (curatrice tra l’altro delle lettere d’amore tra Aleramo e Poletti edite da Castelvecchi), scopro essere una donna eccezionale ma quasi priva di biografia. Così ho iniziato a pensare a un mio Orlando, a costruirle intorno una vita immaginaria che non finisse con la sua morte naturale, avvenuta in Liguria negli anni ‘70 prima che io nascessi; l’ho immaginata come un’attivista moderna. Un faro».
Quindi l’adesione di Lina all’antifascismo, di cui si legge nel suo libro, è finzione?
«Sì, Lina non era antifascista e io ho invece immaginato che fosse tra le promotrici del manifesto degli intellettuali contro il regime. In realtà lei ha scritto un manifesto che si intitola Ancora un cero che si spegne, ma è un testo nostalgico che non c’entra con il fascismo. Però è anche vero che, a Roma, lei e quella che diventerà la sua compagna di una vita, Eugenia Rasponi, saranno “attenzionate” dalla polizia del regime per le loro attività teosofiche».
Perché ha deciso di fare un racconto a frammenti e introdurre la prima persona plurale come voce narrante?
«I frammenti sono un omaggio a Saffo che ovviamente non voleva che la sua scrittura arrivasse a noi spezzettata. Ma così è accaduto e questa per me è stata un’opportunità: i frammenti sono aperti alle interpretazioni, sembra che manchi sempre qualcosa che può essere lasciata all’immaginazione. Ho trasformato un apparente trabocchetto in un modo per dare piena voce alle mie protagoniste. Una tecnica già adottata dalle poetesse Renée Vivien o Eva Palmer. E poi mi sono ispirata anche ai “brevi discorsi” della poetessa contemporanea canadese Anne Carson».
E il noi che riecheggia in tutto il libro?
«L’utilizzo di questo pronome mi è stato chiaro fin dall’inizio: è la voce del coro del teatro classico con la differenza che il mio, contrariamente a quello greco, ha la capacità di cambiare gli eventi, di interferire. Ed è anche un modo per raccontare l’evoluzione di queste donne che nascono giovani lettrici e poi diventano esse stesse narratrici, con una propria voce».
Nel suo romanzo ha eliminato gli uomini. Di solito non c’è Duse senza D’Annunzio, non c’è Kuliscioff senza Turati. Lei scrive nella nota finale: “È stato sorprendentemente facile lasciar fuori questo tipo di uomini: è bastato un semplice taglio e in un battibaleno la storia si è richiusa senza di loro”.
«Li ho espulsi per cattiveria (ride). Non ne potevo più di vedere lui al centro della scena, lui che amava, lui che toglieva tutta l’aria nella stanza. Poi una volta che elimini dalla pagina D’Annunzio ti accorgi che così Eleonora Duse ha un po’ di spazio per sé. Che forse non pensava solo al Vate, ma che voleva imparare il greco, o magari al suo rapporto con Lina Poletti, o pensava alla madre, al pubblico in teatro, alla sua menopausa. Aveva altro da considerare».
Unica eccezione Ibsen che con “Casa di bambola” costruisce un personaggio, Nora, molto caro al femminismo. Eppure anche in questo caso lascia intendere che lui, in un certo senso, se ne è un po’ approfittato…
«Il personaggio di Nora nasce dalla storia di un’amica scrittrice di Ibsen, Laura Kieler, che gli aveva sottoposto il manoscritto della sua biografia e che lui aveva rigettato, tranne poi costruire su quella storia il suo capolavoro. Io ho immaginato il senso di colpa di Ibsen per aver derubato l’amica, ma appunto l’ho immaginato».
La scrittrice Selby Wynn Schwartz (credit Shakespeare & Co, Paris)
La scrittrice Selby Wynn Schwartz (credit Shakespeare & Co, Paris)
Le sue protagoniste sono tutte donne privilegiate, manca uno sguardo su quelle più penalizzate dalla Storia, solo sfiorate.
«È vero, ma non ho voluto inventare una figura magica che incarnasse quella diversità. L’unico omaggio a quel mondo è stato dedicare un intero capitolo alla voce di Berthe Cleyrergue, donna di origini modeste, la cui intera vita è stata al servizio della scrittrice Natalie Barney, e che poi scriverà lei stessa un’autobiografia. Gli altri ritratti sono intrecciati tra loro, questo capitolo invece è tutto suo».