la Repubblica, 21 marzo 2024
Intervista a Vivian Lamarque
Tutto in Vivian Lamarque è poesia, pure la storia del nome. All’anagrafe si chiama Vivian Daisy Donata Provera Pellegrinelli. Comba, sull’estratto di nascita, è il cognome della madre che l’ha abbandonata da piccola, famiglia di Pastori moderatori valdesi e teologi. Lamarque è il cognome del marito, tutt’altro ambiente, un pittore di origini francesi. Deve a lui se è diventata una poeta amatissima da lettori e critica, insignita di prestigiosi premi, l’ultimo è lo Strega Poesia: «Ha creduto in me, mi ha incoraggiata, rarità, e anche ispirata. Girava per casa recitando Eliot e commedie di Eduardo. Lamarque mi piace tanto perché è il cognome di mia figlia Miryam». Parliamo di tutto, ma solo via mail, preferisce scrivere che rispondere a voce. Il saluto lascia speranza: nel Tremila ci saranno ancora i poeti. Intanto un consiglio: procuratevi l’antologia Bei cipressetti, cipressetti miei curata con Nicola Crocetti: ci sono Attilio Bertolucci e Umberto Saba, Mariangela Gualtieri e Roberto Piumini, Chandra Livia Candiani e Bruno Togliolini (e tanti altri). E poi la Storia con mare cielo e paura, una fiaba di bambini migranti, barconi e casette su un albero di nave (Salani).
In tempi tanto spudoratamente prosaici come i nostri, che ruolo ha la poesia?
«Se non sbaglio i tempi sono sempre stati alquanto prosastici. Lo erano anche quando nelle arene il goleador da applaudire era il leone. Altro che Maradona. Anche allora per fortuna i poeti scrivevano e scrivevano. E tuttora noi li leggiamo e impariamo».«Mussolini ha scritto anche poesie. I poeti che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa..»: Francesco De Gregori, brano stupendo cantato anche da De André.«Noi siamo voi. Uguali, sputati».Intende che siete lo specchio di noi lettori?«In più c’è che noi la vita la scriviamo. La scriviamo anche».Come si è avvicinata alla poesia?«Come altri cominciai nell’infanzia. Casa vuota dipersone e zeppa di fiabe. Ho cominciato a scrivere leggendo.Poco a poco però sono scivolata in un mondo immaginario.Scrivere un po’ mi curava ma un po’ mi ammalava. L’analisi junghiana, peccato iniziata solo a 38 anni, mi ha salvata».La sua storia di bambina abbandonata, adottata, poi orfana, ha contribuito a spingerla verso la scrittura?«Nella mia adozione tutto è successo al contrario. Famiglia valdese importante e abbiente che mi lascia (quella della mia madre biologica) e famiglia semplice, cattolica che mi adotta. La mia scoperta della verità a dieci anni. Io che non ho il coraggio di dire che so e la mamma idem. Nove anni di questo teatrino. Nove anni di inseguimenti di sconosciuti che scambio per consanguinei e pedino e inseguo come le ochette di Konrad Lorenz».Inseguiva mammeimmaginarie?«È andata così fino ai ritrovamenti di padri madri fratelli e sorelle. La frequentazione, spesso furtiva, di ognuno. Confusione. Sia benedetta, sebbene in ritardo, l’analisi. Certo qualche traccia nel tempo è rimasta. Certe infatuazioni tardive a quasi ottant’anni non sono che la riedizione di quelle ochette innamorate di Lorenz» (gli innamoramenti fuori tempo scanzonati, segreti, sono nelbellissimo L’amore da vecchia,edito da Mondadori, ndr)”.Forse per via di questa confusione ama la poesia chiara, le rime “facili” di Giorgio Caproni, i versi limpidi di Umberto Saba e Sandro Penna?«Tutto nella realtà era confuso,tutto scrivendo diventava chiaro.Ho sempre paura di non essere capita. Correggo e ricorreggo, anche già stampati, i versi. Ho paura che non si capisca, mi chiedo: nella mia poesia dellaSiepesi capirà che G.L. è Giacomo Leopardi? O quel verso – “di occhi azzurri tutti e tre” – si capirà che due sono i nipotini e uno è il mare? Dopo anni pesanti la leggerezza è la salvezza. Ma ora che sto meglio cerco e amo anche i poeti “difficili”».I bambini invece, ai quali ha dedicato almeno cinquanta fiabe, hanno una via d’accesso privilegiata alla poesia. Un tempo le poesie si imparavano a memoria.«Risuonassero ancora le aule di poesie imparate a memoria da piccoli (e di canti! Un’ora alla settimana di canto sarebbe una vera medicina per la fragilità di certi bambini)».Anche se erano recitate a pappagallo senza capirle?«Fa niente se non capivo, se le carducciane “quattro paghe per il lesso” mi facevano orrore. Tra l’altro, alla refezione sul lesso si intravedeva un timbro sanitario violetto (la poesia citata èDavanti San Guido, ndr). Ora la scuola ha colpevolmente imbavagliato quel grande coro».Sfatiamo qualche cliché: il poeta non deve essere per forza un solitario, un adoratore del silenzio e degli eremi.«Mi piace molto stare da sola. Maa una condizione: che intorno tutto si muova e risuoni. Le otto corsie che ho sotto le finestre (non ho nemmeno i doppi vetri) ma più ancora il viavai senza sosta delle persone, mi fanno compagnia. È “il dolce rumore della vita” di Sandro Penna».La poesia è osservazione dei dettagli? Di sé scrive: “Da minime cose attratta”.«Passo molto tempo alla finestra, ad osservare. Mi piace anche molto andarmene in giro con una pinza telescopica e raccattare le cartacce per le strade di Milano.Se lo facessimo tutti, Milano sarebbe la Svizzera. Provate».Nonostante una certa ritrosia degli editori a pubblicare poesia, i premi si moltiplicano, servono?«Non so se servano al genere umano, a me personalmente sì!Ho una pensione di 675 euro, se mi va in tilt il cervello sono fritta, per questo ho scritto in un verso: “non lasciarmi mai, Alfabeto”».Ci sono poeti che sull’onda del poetry slam riempiono locali e teatri, vanno in tour, frequentano Instagram e TikTok. Profanatori?«Alcuni sono di alto livello. Penso a Lorenzo Maragoni o a Filippo Capobianco. Chissà con l’età come si modificherà la loro poesia, nell’aldilà mi piacerebbe essere informata sulle poesie del Tremila e soprattutto da là vorrei anche inviarne. Immagino non mancheranno cose da raccontare».