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 2024  marzo 21 Giovedì calendario

Intervista a Franco Grillini

 Franco Grillini sale piano le scale della palazzina di via San Vitale, centro storico di Bologna, dove vive da oltre quarant’anni. Dodici gradini. Una sola rampa. Fino a qualche anno fa, sarebbe stato impossibile. «Ho messo un montascale, altrimenti avrei dovuto traslocare. Ma io da qui non voglio andare via». Qui, in questa antica via, linea di confine tra la zona universitaria e il centro «bene», sono rimaste giusto un paio di botteghe storiche e qualche boutique, per il resto è un proliferare di phone center, kebab e altro cibo low cost. «Ma la mia pasticceria del cuore resiste e io non potrei farne a meno. Poi, a me piace mescolarmi». Bologna è mescolanza. E Franco Grillini è Bologna. Nel 2014 gli è stato diagnosticato un bruttissimo male, un mieloma multiplo, tumore del sangue che non lascia quasi mai scampo. Grillini parlò subito pubblicamente della malattia. Fu il suo secondo coming out, dopo quello fatto a 19 anni, quando rivelò di essere omosessuale.
Oggi come sta?
«Meglio. Certo, sono un fragile e un invalido. Ma vivo», sorride il fondatore dell’Arcigay, di cui è oggi presidente onorario, e della Lila (Lega italiana per la lotta all’Aids), più volte parlamentare, fautore della «rivoluzione gentile», come recita il sottotitolo del documentario Let’s Kiss a lui dedicato dal giornalista Rai Filippo Vendemmiati. Franco Grillini è il movimento Lgbt italiano. La sua storia è quella del movimento. Nella sua vita pubblico e privato, politico e privato, sono la stessa cosa. Ed eccolo qui, pur costretto a ritmi lenti dalla malattia, a battagliare. A fare progetti. A sfilare ai pride. A volte in carrozzina, ma sempre in prima linea.

Vuole raccontarci della sua malattia?
«È un tumore che colpisce le cellule architrave del sistema immunitario, quindi crea una grave immunodepressione. I primi tre anni sono stati tremendi. Ho subìto una chemio pesantissima e un autotrapianto di cellule staminali. Ne avrei dovuti fare tre, di autotrapianti, ma ne ho retto soltanto uno: è stato così pesante che alla fine non mangiavo più. Sono arrivato a pesare 50 chili, prima di ammalarmi ne pesavo oltre cento. Ero il fantasma di me stesso, mi davano tutti per spacciato».
Invece.
«Invece, mi sono salvato grazie a una terapia sperimentale. L’accesso ai medicinali sperimentali avviene perché sei inserito in un protocollo per motivi compassionevoli. Tradotto: per te non c’è più nulla da fare, proviamo anche questa. E insomma, succede che, dopo un mese appena di terapia, la malattia si blocca. Al Sant’Orsola mi dissero: mai vista una roba così».
Un leone. Continua a prendere questo farmaco?
«Senza non potrei farcela. Ho ripreso peso e, pian piano, anche a camminare».
Si sente un sopravvissuto?
«Due volte sopravvissuto».
La seconda volta?
«Nel 2020 ho preso il Covid. Data del ricovero: 23 marzo 2020, pieno lockdown. Anche allora erano tutti convinti che ci avrei lasciato le penne. D’altra parte ero un paziente fragilissimo e avanti con gli anni, un candidato perfetto a schiattare di Covid».
E (due) invece?
«Invece mi dimisero dopo tre giorni».
Cosa le ha insegnato la malattia?
«Che delle malattie, come di tutte le sfortune della vita, non bisogna vergognarsi. Non bisogna vergognarsi di uscire in carrozzina, di indossare una parrucca, di avere una brutta cera. I malati di cancro troppo spesso si chiudono in casa, tagliano i ponti con tutti, non chiedono aiuto. Ma la malattia non è una colpa».
La malattia e il senso di colpa. Tornano alla mente gli anni terribili dell’Aids.
«All’epoca il nostro ruolo, il ruolo della Lila che io fondai, fu soprattutto questo: gestire il devastante senso di colpa di chi si ammalava».
Come passa le sue giornate oggi?
«Faccio mille cose! Soprattutto mi dedico a valorizzare la nostra memoria storica. Quella della comunità gay bolognese. Sto cercando una sponda istituzionale, a Roma, per digitalizzare l’immenso materiale cartaceo, ma anche vhs e altro, degli anni 80 e 70 che rischia di andare perduto. E sto lavorando al progetto di un gay museum a Bologna. Dovrebbe sorgere nel nuovo polo museale della città».
Lei è instancabile.
«Sono già alla mia terza vita, la quarta se contiamo quella da etero. Me ne occorrerebbero altre due per fare tutto quello che ho in mente».
Se si guarda indietro, quale considera la sua più grande vittoria?
«La “presa” del Cassero l’8 giugno 1982. Era la prima volta che un Comune concedeva uno spazio pubblico a un’associazione gay. E perlopiù in un luogo caro ai cattolici bolognesi e non solo: il Cassero di Porta Saragozza, dove passava la Madonna di San Luca. Venne persino papa Giovanni Paolo II a Bologna per cercare di convincere l’allora sindaco Renato Zangheri a non darcelo. Ma alla fine, avemmo la meglio noi».
Ha un compagno adesso?
«Mai stato così single. D’altro canto dovrei trovarmi un amore badante».
Ha amato tanto nella sua vita?
«Tantissimo. Ho avuto amori coniugali, intendo storie serene, di condivisione, e amori passionali, intensi ma che alla fine si sono bruciati abbastanza in fretta».
Credo di poter immaginare quali preferisca.
(sorride) «Beh, quelli passionali sono stati con uomini molto più giovani di me».
Quanto più giovani?
«Trent’anni e passa. L’ultimo grande amore, finito nell’annus horribilis 2014, aveva 33 anni meno di me».
Perché è finita?
«Perché la sua famiglia era contraria. Arrivarono a minacciarmi di morte. A lui dissero che avrebbero assoldato un killer che con 25mila euro mi avrebbe fatto fuori».
Un’altra morte scampata.
«Mi lasciò prima che potessero uccidermi e tornò al suo paese, al sud».
Com’è una relazione con una persona più giovane di 33 anni?
«Posso parlare per me: bellissima. Ma penso di poter parlare a nome di molte persone dicendo che quello della differenza d’età è l’ultimo tabù da sfatare nella nostra società. Abbiamo fatto accettare le relazioni fra due persone dello stesso sesso, ma la gente fatica ancora a comprendere gli amori nati fra chi ha età molto diverse».